La storia della letteratura italiana è costellata di geni incompresi, derisi, perseguitati o costretti all’esilio. L’esempio più illustre è Dante, il quale sapeva bene «come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale»: bandito dalla sua città natale, mendicherà ospitalità per tutta la vita, errando di corte in corte, sino a che, una volta affermata la sua fama, la matrigna Firenze renderà onore al suo più virtuoso “figlio”, a lungo negletto. Tra i primi a rendere giustizia all’Alighieri fu Boccaccio, che condannò l’ingratitudine della sua patria: «inrevocabile esilio», «questa fu la marmorea statua fattagli ad etterna memoria della sua virtù!», scriveva nel suo appassionato Trattatello, la prima biografia del Vate, in cui il Certaldese si impegnava a rendergli giustizia, «non con istatua o con egregia sepoltura» ma «con lettere povere a tanta impresa».
Un destino non dissimile spettò molti secoli dopo a Leopardi, prima schernito dai suoi concittadini e ora portato in gloria. Il “gobbo” di Recanati, la cui statua è oggi posta trionfalmente al centro della piazza principale, ebbe tanto quanto il suo illustre predecessore un rapporto ambivalente con la terra natia. La cittadina marchigiana è il «borgo selvaggio» de Le ricordanze, abitato da «gente zotica, vil» che lo sbeffeggia, l’«odia e fugge» e dove è cresciuto «abbandonato, occulto, senza amor, senza vita». Recanati gli è tanto “cara” che le potrebbe dedicare un «trattato dell’Odio della patria» (lettera a Pietro Giordani, 1817); non lo farà, naturalmente, ma disseminerà il suo epistolario di commenti sprezzanti. La Marca è «la più ignorante ed incolta provincia dell’Italia» (a Pietro Brighenti, 1820) e la sua città, «dove chi sa leggere è un uomo raro» è un «verissimo sepolcro», in cui ha vissuto «segregato dal commercio, non solo dei letterati, ma degli uomini» (a Gian Pietro Vieusseux, 1824); una «porca città», in definitiva, i cui abitanti sono «asini» e «birbanti» (a Francesco Puccinotti, 1827).
Non stupisce che Leopardi, poco più che adolescente, avesse meditato di fuggire, patendo volentieri le sofferenze che spettano agli esuli: «in questo paese di frati» confidava a Pietro Giordani «e in questa maledetta casa, dove […] volere o non volere a tutti i patti mi fanno viver da frate […] fatevi certo che in brevissimo io scoppierò, se di frate non mi converto in apostolo, e non fuggo di qua mendicando». Un mese dopo rispetto a questa lettera, del giugno 1819, tenterà invano la fuga per i territori asburgici, spinto dal desiderio di gloria. L’isolamento e la sofferenza perdureranno, eppure inizia a farsi sempre più spazio in lui una forza titanica. «Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m’avvezzo a ridere, e ci riesco. E nessuno trionferà di me, finché non potrà spargermi per la campagna, e divertirsi a far volare la mia cenere in aria», scrive a Pietro Brighenti da Recanati, il 22 giugno del 1821.
Il “triste” e “lacrimevole” Leopardi era in realtà convinto che «il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da sé medesimo» (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani); all’infelicità umana non v’è rimedio, dunque «assai più degno dell’uomo, e di una disperazione magnanima, è il ridere dei mali comuni; che il mettersene a sospirare, lagrimare e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare altrettanto» (Dialogo di Timandro ed Eleandro). L’essere umano è sì un animale intellettivo e razionale, ma ciò che lo contraddistingue è il riso: l’uomo è un «animale risibile», scrive nell’Elogio agli uccelli, sulle orme di Dante, e precisamente di un verso della Vita nova («Dico anche di lui che ridea, e anche che parlava, le quali cose paiono essere proprie dell’uomo, e spezialmente essere risibile») e di un passaggio della celebre Epistola a Cangrande della Scala («se homo est, est risibile»). Il riso è un’esclusiva dell’uomo, sottolinea Leopardi nella sua operetta, anche e soprattutto di chi ha compreso la vacuità dell’esistenza.
«Chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire», sintetizzerà infine nel suo Zibaldone, in un appunto del settembre 1828, poco prima di rientrare a Recanati – dopo esser stato a Roma, Milano, Bologna, Firenze e Pisa – e di prendersi una rivincita sui suoi concittadini. A conclusione di quei «sedici mesi di notte orribile» (novembre 1828 – aprile 1830) un Leopardi sogghignante, commentando il ritratto che fece di lui Luigi Lolli, chiedeva alla sorella Paolina di farlo circolare «acciocché i Recanatesi» vedessero «cogli occhi del corpo (che sono i soli che hanno) che “il gobbo de Leopardi” è contato per qualche cosa nel mondo». Era il 18 maggio del 1830: un mese dopo lascerà per sempre Recanati, gli zotici che lo dileggiavano ma anche gli ameni dintorni, i luoghi del cuore e della memoria: la “piazzuola”, la “torre del borgo”, l’“ermo colle” e la casa di Silvia.
Senza quegli studi «micidiali», quei «sette anni di studio matto e disperatissimo» condotti nella biblioteca paterna, dove «vi entrò recanatese [e] ne uscì cittadino del mondo», come disse Francesco de Sanctis, non avremmo avuto né il poeta dell’infinito né, forse, il poeta civile; gli idilli e le canzoni patriottiche, il dolore e la forza di Leopardi. L’uomo che era sì «deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti» ma che pur non smise mai di combattere, «fino all’ultimo fiato, senza tregua», come scrisse a Pietro Brighenti in quella lettera del 22 giugno 1821 in cui svelò la potenza del riso. «Questa vita, e questo uffizio di combattere accanitamente e perpetuamente», è «stato destinato all’uomo e ad ogni animale dalla natura», confidava all’amico, e così lo consolava: «Amami, caro Brighenti, e ridiamo insieme alle spalle di questi coglioni che possiedono l’orbe terraqueo. Il mondo è fatto al rovescio come quei dannati di Dante che avevano il culo dinanzi ed il petto di dietro; e le lagrime strisciavano giù per lo fesso. E ben sarebbe più ridicolo il volerlo raddrizzare, che il contentarsi di stare a guardarlo e fischiarlo».
“Dante e Leopardi poeti dell’esilio”
Alphaville 16.05.2024, 11:05