L’unica cosa realmente certa è costituita dalle sue opere letterarie, dalle fotografie che ritraggono il suo sorriso gentile, triste e ironico, dai costanti problemi di salute e dagli estremi biografici: Franz Kafka, nato il 3 luglio 1883 a Praga e morto il 3 giugno 1924 nel sanatorio di Kierling nei pressi di Vienna, autore di un centinaio di racconti, della terribile Lettera al padre e tre romanzi -Il processo, Il castello e America o il disperso- che sono ormai entrati nella coscienza collettiva.
Franz Kafka e la musica
Voi che sapete... 05.06.2024, 10:00
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Tutto il resto si è cristallizzato nell’immagine dello scrittore funereo, tetro e plumbeo, che ci costringe in chissà quali abissi, perché così lo hanno rimodellato un certo canone letterario e una fin troppo facile mitologia “pop”. Siamo tutti sotto processo, non si sa perché, forse per il solo fatto di essere nati. Ogni mattina, al risveglio, potremmo scoprire che ci siamo trasformati in scarafaggi. La vita è una grande colonia penale, una tana claustrofobica, il castello è lontano e irraggiungibile, il messaggio dell’imperatore non arriverà mai e da qualche parte si sente un colpo sul portone. Tutto vero, anzi verissimo, sorretto peraltro da una densità sintattica e un nitore poetico che hanno creato enormi problemi a chiunque abbia tentato di volgere le sue opere in italiano. Un traduttore del rango di Primo Levi, ad esempio, aveva ammesso di essere uscito estremamente provato dal confronto microscopico con le pagine de “Il processo”: «Ci si fa carico di questo mondo stravolto, dove tutte le attese logiche vanno deluse. Si viaggia con Josef K. per meandri bui, per vie tortuose che non conducono mai dove ti aspetteresti».
Rimane tuttavia da chiedersi, come ha fatto uno dei suoi lettori maggiormente avvertiti, il compianto Italo Alighiero Chiusano, se Kafka è sempre e comunque “kafkiano”, se quegli abissi provocano solo ed unicamente angoscia e disagio, oppure se dalle loro profondità non salga anche -e soprattutto- una risata liberatoria. Ha scritto infatti Chiusano nel 1983, in occasione del centenario della nascita: «Kafka è uno dei più grandi e divertenti umoristi della letteratura moderna», perché il suo umorismo «nasce da un fondo di tristezza, di sfiducia nei confronti dell’uomo, e si appaia a una simpatia cordiale per le sue miserie». Quest’altro anniversario tondo potrebbe quindi fornire lo spunto per ripensare il significato dell’aggettivo “kafkiano”, ormai logorato dall’uso improprio.
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Perché con Kafka ci si diverte e molto spesso si ride, a patto che lo si legga nella giusta maniera, sbarazzandosi dei luoghi comuni e delle flaubertiane “idee ricevute”. Beninteso, la risata è molto amara, ma pur sempre una risata, perché Kafka, insieme a pochissimi altri (Chiusano ricordava giustamente Gogol’ e Dostoevskij, ma si possono forse aggiungere il personaggio di Fantozzi creato da Paolo Villaggio, un certo Céline umorista malgré lui e talune pagine di un presunto “kafkiano” come Dino Buzzati), ha davvero smascherato l’essenza più intima della cosiddetta “realtà”, banalissima e ridicola nella sua eterna tragicommedia senza redenzione.
Un secolo di letture parziali, semplicistiche, sbagliate e talora perfino ideologiche ha prodotto insomma un singolare paradosso, consistente nel fatto che per trovare interpretazioni originali e innovative bisogna risalire alle testimonianze di chi lo ha conosciuto di persona: gli scrittori Johannes Urzidil ed Ernst Weiss, ad esempio, che gli hanno dedicato pagine bellissime e penetranti, e soprattutto il suo paterno e fraterno amico Max Brod (al quale, come noto, si deve la sopravvivenza della sua opera), che nel 1937 gli consacrò una fondamentale biografia presa in seria considerazione solo per un breve periodo, poi colpevolmente trascurata e infine negletta, probabilmente perché non corrispondeva alla mitologia che i professori di letteratura stavano creando intorno a Kafka: lo scrittore costantemente triste e infelice. Rileggerla oggi, significa ritornare alle radici più autentiche del mondo umano e poetico di Kafka: «Rideva volentieri e cordialmente -ha osservato Brod- e sapeva far ridere gli amici. Il fatto che dai suoi libri e soprattutto dai diari si possa trarre un’immagine totalmente diversa, molto meno serena, è una delle ragioni che mi hanno indotto a scrivere questo libro».
Il grande umorismo non nasce mai dalla gioia di vivere e dalla spensieratezza, ma da un inestirpabile fondo di disperazione e da un lacerante e irrisolto confronto con la realtà. Nel caso di Kafka, che Thomas Mann aveva definito un “umorista religioso”, nasce dal pessimismo sulla natura dell’uomo. Ha scritto Brod: «Se gli angeli in cielo facessero dello spirito, lo dovrebbero fare col linguaggio di Kafka. E’ un linguaggio di fuoco che non lascia fuliggine, che ha la sublimità degli spazi infiniti e tuttavia vibra con tutte le convulsioni delle creature. Il suo è un sorriso al cospetto delle cose ultime, metafisico, che talvolta, quando leggeva a noi amici uno dei suoi racconti, si intensificava fino a che si scoppiava tutti in una risata».
Non deve perciò stupire che i due vertici dell’umorismo, secondo Brod, siano rinvenibili ne La metamorfosi e nel primo capitolo de Il processo, proprio perché costituiscono i due momenti nei quali Kafka si è maggiormente calato negli abissi, ma sempre «suo malgrado» e nella convinzione che «Dio sarà stato sicuramente benevolo nella sua creazione, ma non con noi e per noi». Ma non solo: il tetro e funereo Kafka è anche l’autore di simpaticissimi aneddoti sull’incompatibilità tra il cielo e le cornacchie, oppure sull’avventore che ha bisogno di chiamare un poliziotto per farsi servire al ristorante. E che alla fine commenta: «E’ una cosa che toglie ogni piacere all’esistenza».
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Questo è Kafka, questi siamo noi. E questa, comunque la si voglia intendere e circoscrivere, è la troppo sopravvalutata “realtà”. A chi non è mai successo, di fronte a una sequela di inconvenienti, di assurde occorrenze, oppure al cospetto delle vischiose e metafisiche pareti della burocrazia, di provare un’irritazione e uno sconcerto che si sono poi stemperati e infine sciolti in una risata liberatoria? Quella risata -riconducibile anche al retaggio ebraico dello scrittore praghese- è la tipica risata di Kafka e sorge dall’idea kafkiana per eccellenza: la costante percezione di un tempo sospeso, che non va da nessuna parte, la vita come giostra di apparenze che rimandano ad altre apparenze, poi ad altre ancora, e infine al nulla come ultimo approdo e destino. Cominciamo a leggerlo in questo modo, oltre il mito e l’icona. Scopriremo un Kafka completamente nuovo e troveremo con sorpresa un ottimo compagno di viaggio. Che ci farà ridere -o almeno sorridere- delle insormontabili miserie e delle innumerevoli assurdità del vivere.
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