Letteratura

Peter Weiss

L’estetica della resistenza (e dell’esilio)

  • 29.01.2022, 09:16
  • 14.09.2023, 09:19
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Di: Mattia Mantovani 

Nei tardi anni Quaranta del secolo scorso, di ritorno in Europa dopo il lungo esilio negli Stati Uniti, Thomas Mann tracciò un resoconto della propria vita e disse di aver scritto soltanto libri tedeschi su temi tedeschi, facendo tuttavia precedere il secondo aggettivo “tedeschi” dall’avverbio “verzweifelt”, “disperatamente”, perché a suo modo di vedere i temi tedeschi, comunque li si affronti, sono sempre “disperatamente tedeschi”.

Non ce ne voglia babbo Thomas, ma forse bisogna aggiungere due sostantivi, “esistenze” e “destini”, perché la Germania del Novecento, la “pallida madre” di una celebre poesia di Bertolt Brecht poi ripresa nel titolo di un bellissimo e sofferto film di Helma Sanders-Brahms, ha provveduto a creare non solo temi, ma anche esistenze e destini “disperatamente tedeschi”. E’ il caso dello scrittore e drammaturgo Peter Weiss, nato a Nowawes/Babelsberg nei pressi di Berlino nel 1916 e morto a Stoccolma nel 1982.

Il tratto unificante di questi destini è costituito dall’esilio come occorrenza biografica e condizione dell’anima, come perdita non solo della patria nel senso di “Heimat”, ma anche (e conseguentemente) della lingua e dell’identità. Lo spaesamento di Peter Weiss (che per discendenza paterna era quello che allora veniva definito un “mezzo ebreo”) fu dapprima geografico, con la perdita della patria tedesca e lunghi periodi trascorsi nel villaggio boemo di Warnsdorf, a Praga, in Inghilterra e in Svizzera prima del trasferimento definitivo a Stoccolma nel 1938. Il periodo trascorso in Svizzera, a Montagnola e poi a Carabietta, coincise con l’incontro e l’amicizia con Hermann Hesse, che lo formò sia come uomo che come scrittore.

Se li si giudica esclusivamente in base ai criteri stabiliti dal canone letterario, risulta difficile immaginare due autori maggiormente diversi di Hesse e Weiss, non solo per motivi geografici e anagrafici -il tedesco del sud Hesse era più anziano del berlinese Weiss di quasi 40 anni- ma anche perché la loro opera sembra mirare a due scopi perfettamente antitetici: il rifiuto della realtà storica e delle finzioni sociali nel caso di Hesse, una critica radicale dell’esistente in chiave marxista e rivoluzionaria nel caso di Weiss. Totalmente ottocentesco e apolide il primo, insomma, e profondamente (disperatamente) novecentesco e tedesco il secondo, separati da uno iato incolmabile fatto di una tradizione e un approccio alla realtà completamente diversi. Ma a uno sguardo più attento, e soprattutto leggendo il loro ricco carteggio, si scopre una sorprendente vicinanza, quasi un’affinità elettiva, al punto che l’opera del rivoluzionario Weiss può essere considerata come una sorta di continuazione con altri mezzi -e con altri registri stilistici- dell’opera del pacifista e apolitico Hesse.

Dopo il definitivo trasferimento in Svezia, l’esilio assunse anche connotazioni linguistiche, perché Weiss rifiutava di esprimersi nella lingua madre -la lingua dei carnefici- e quindi scrisse le prime opere in svedese: «La mia località, la località alla quale ero destinato, era Auschwitz. Ero cresciuto per essere annientato, ma ero scampato all’annientamento», spiegò in seguito nel romanzo autobiografico “Punto di fuga”. Fu solo intorno al 1960, dopo anni di profondo disorientamento, che riconobbe infine nella scrittura in lingua tedesca (la lingua dei carnefici, ma anche la lingua della Heimat e quindi del radicamento) l’unico strumento per esprimere la frattura e insieme sanarla. Fu inoltre grazie al personale interessamento di Hermann Hesse che poté pubblicare per il prestigioso editore Suhrkamp.

Le prime opere scritte in tedesco nel 1961/62, il già ricordato “Punto di fuga” e l’altro racconto autobiografico “Congedo dai genitori”, saldano i conti col passato nel solo modo che Weiss ritiene possibile, in virtù di uno sfalsamento prospettico tra l’io dell’esperienza vissuta e l’io narrante, che racconta la propria storia come se fosse la storia di un altro. Lo stesso Weiss ha spiegato un simile procedimento in un passo molto rivelatore di “Punto di fuga”, che in sostanza esprime tutta la sua poetica: «L’unico testimone che potrebbe smentirmi, il mio io di allora, si è corroso dissolvendosi in me. Scrivere mi procura una seconda vita immaginaria in cui tutto quello che era sfocato e incerto si finge chiaro».

La “seconda vita immaginaria” è contrassegnata da una rigorosa e mai compromissoria coscienza civile e dall’impegno ideologico, in un solco idealmente tracciato dal paterno e fraterno amico Hermann Hesse. Peter Weiss, che sposò l’ideologia marxista e fece proprio il materialismo dialettico come visione del mondo e possibile soluzione dei conflitti e delle diseguaglianze, è stato uno degli ultimi a credere in quello che Arthur Koestler definì “il dio che ha fallito”, eppure le opere della sua “seconda vita immaginaria”, che tanto influsso hanno esercitato sul Sessantotto tedesco e all’epoca ebbero una grande eco anche in Italia, non sembrano affatto datate, se si prescinde da qualche perentorietà che oggi ci appare effettivamente anacronistica. Il marxismo, infatti, al di là del suo oggettivo fallimento sul piano storico, è stato messo giustamente in soffitta insieme al suo dogmatismo e alla sua colpevole sottovalutazione del dato antropologico, sottolineata tra gli altri da Max Frisch nel celebre discorso tenuto nel 1986 alle Giornate Letterarie di Soletta. Ma ci si è dimenticati -non meno colpevolmente- che è stato l’ultima concezione veramente classica e totale dell’uomo.

Non è quindi datato (ed è anzi di un’attualità per molti versi inquietante) il testo teatrale “L’istruttoria”, scritto nel 1965, un “oratorio in undici canti” che ricostruisce in senso drammaturgico il processo sui crimini di Auschwitz. Perché in fondo, come ricordava Brecht nell’“Arturo Ui”, il grembo («la cosa immonda») dal quale nascono dittature e totalitarismi «è sempre fecondo». E allo stesso modo non è assolutamente datata la riflessione sul potere e la coercizione (e sull’autentico senso della libertà) contenuta nel quasi leggendario “Marat-Sade”, scritto nel 1963/64, che conobbe una fama di livello mondiale grazie alla messinscena a Londra per la regia di Peter Brook. Uno spettatore d’eccezione come Ennio Flaiano, in una recensione poi raccolta nel volume “Lo spettatore addormentato”, lo commentò in questo modo: «Weiss pone il problema della rivoluzione, ossia se le stesse verità debbono valere per i capi e per la massa, se l’uomo non è per sua natura antirivoluzionario, se l’idealismo umanitario non porta fatalmente alla dittatura, e soprattutto dove possiamo segnare, oggi, i confini tra la ragione e la follia». E’ uno dei grandi temi della cultura europea, inaugurato da Georg Büchner nei primi decenni dell’Ottocento e ben lungi dall’essere esaurito.

Anche opere maggiormente legate alla cronaca, come la “Cantata del fantoccio lusitano” del 1967, durissima critica del colonialismo, e il “Discorso sul Vietnam”, scritto l’anno successivo, nel quale l’imperialismo appare in tutto il suo orrore, non hanno perso nulla quanto a impatto e suggestione, perché in questi ultimi decenni sono forse cambiati i metodi, ma la sostanza è rimasta la stessa e la “cosa immonda” è sempre in agguato. La “Cantata del fantoccio lusitano”, nello specifico, fu uno dei testi di riferimento della contestazione in Italia negli anni Settanta. Alcuni suoi versi, riletti e trasformati in inno universale alla liberazione («Siamo noi a far ricca la terra / noi che sopportiamo / la malattia del sonno e la malaria / Ma riprendiamola in mano, riprendiamola intera / riprendiamoci la vita / la terra, la luna e l'abbondanza»), vennero messi in musica e inseriti nell’ultima parte della suite del 1976 “Ho visto anche degli zingari felici” del compianto Claudio Lolli, che da parte sua spiegò la scelta osservando che le strofe dovevano essere interpretate come «un rifiuto dei colonizzati alla colonizzazione, per un recupero dei beni di cui sono stati espropriati».

Negli ultimi anni di vita, segnati da condizioni di salute sempre più precarie, Peter Weiss si è rivolto idealmente ai posteri consigliando di leggere l’intera sua opera come un monito, nel timore che sarebbe giunta una nuova epoca, «il tempo dell’ideologia della fine delle ideologie». Il timore, nel frattempo, si è trasformato in certezza, di modo che l’“ideologico” Weiss risulta oggi più che mai imprescindibile per capire il presente e ricordarci che esiste anche un’“Estetica della resistenza” (e dell’esilio inteso quale volontaria scelta esistenziale, vorremmo aggiungere). E’ il titolo del suo ultimo, monumentale romanzo, scritto tra il 1975 e il 1981, una storia alternativa del “secolo breve”, delle sue grandezze e dei suoi orrori.

Esattamente come Hermann Hesse, anche se a partire da una diversa prospettiva, Peter Weiss ha visto nella letteratura l’estremo tentativo -tanto nobile quanto inutile- di cambiare l’essere umano e conseguentemente il mondo. E poi, a ben vedere, la prospettiva non era così diversa. In fondo era stato proprio l’apolitico Hesse, in uno scritto dei primi anni Trenta, a chiedersi se «la forma economica e l’ordine sociale capitalistici stiano sopravvivendo a stento e, gravemente ammorbati, siano ormai prossimi al tramonto». L’intera opera di Weiss è un tentativo di rispondere a questa domanda, tenendola viva e fornendo un contrappunto a queste altre parole del venerato maestro di Montagnola: «Non mi interesso di politica, perché in caso contrario sarei da tempo un rivoluzionario».

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