Letteratura

Philippe Jaccottet

Il poeta della discrezione

  • 30.06.2023, 00:00
  • 31.08.2023, 11:24
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  • Keystone
Di: Mattia Cavadini 

Considerato uno dei maggiori poeti europei del XX secolo, più volte candidato al Premio Nobel, autore di un'opera dal lirismo asciutto, che interroga la natura, Philippe Jaccottet è nato il 30 giugno 1925.

Durante la sua lunga esistenza ha pubblicato, senza darne rilievo, numerose raccolte poetiche, volumi in prosa, diari, riflessioni sulla poesia e sulla traduzione, importanti traduzioni dal greco (Odissea), dal tedesco (Goethe, Hölderlin, Rilke, l'opera omnia di Robert Musil), dall'italiano (Leopardi, Carlo Cassola, Giuseppe Ungaretti, Giovanni Raboni) e dallo spagnolo (Góngora).

Nonostante la rilevanza, sia quantitativa che qualitativa, della sua opera (che Gallimard ha deciso di pubblicare integralmente nella prestigiosa collana della Pléiade) Jaccottet è stata una meteora luminosa che ha attraversato l'universo letterario senza la fanfara del successo. Ma questo non stupisce. Del resto, lungi da qualsiasi eccesso, contestazione, visibilità o provocazione, Jaccottet ha affidato l'intera sua esistenza alla pratica della discrezione.

Nato a Moudon, dopo gli studi a Losanna si reca a Parigi dove lavora come collaboratore dell’editore Mermod, ma nel pieno della sua attività poetica ed editoriale, sceglie di scartare di lato. Va a vivere a Grignan, in Provenza, con la moglie pittrice. In questa scelta di vita sta tutto il suo modo d’essere e la sua poetica (ontologia e poesia vanno quasi sempre a braccetto).

A differenza di molti autori suoi contemporanei, che hanno fatto della contestazione, del rifiuto, della provocazione al reale la matrice della loro poesia, Jaccottet ha scelto un’altra strada, sebbene con lo stesso intento: ovvero quello di scampare a cette mort avant la mort qui nous impose le monde moderne. Anziché urtarsi contro il reale, egli ha scelto la via della discrezione e dell’accettazione: accettare di essere qui, di coincidere con il tempo e con lo spazio della sua traiettoria esistenziale. Scelta difficile, che gli ha impedito le fughe di stampo baudelairiano nell’immaginazione e quelle rimbaudiane nel delirio (fughe che hanno affascinato molta letteratura del Novecento), e che lo ha obbligato a giocare la sua avventura nell'esistenza.

Il campo di azione e di investigazione di Jaccottet è stato sempre il visibile. Nessun altrove ha alimentato fantasie o speranze. È nel visibile che Jaccottet ha intrapreso il suo cammino poetico ed esistenziale, cercando di scoperchiarne le apparenze e rivelandone la presenza nascosta. Sull’esempio degli amatissimi Rilke e Höldelin, Jaccottet ha cercato di scorgere l’invisibile che si nasconde nel visibile, ha cercato di dare la parola a quella presenza-assenza che è la realtà, inradicata di sacralità e mistero. O meglio, ha cercato di ammutolire davanti a questa realtà, lasciandole piena facoltà di esprimersi, senza sovrapporre alcun pensiero, alcuna volontà di possesso. Il suo è stato un lavoro di sottrazione: non essere che testimone. Testimonianza di una realtà inafferrabile, presente in filigrana nell’intima porosità del reale.

Ma come è stato possibile alla poesia, che nasconde sempre una voce e un autore, non essere che testimonianza, pure oggettualità senza soggetto? Jaccottet sottolinea due aspetti che hanno favorito questo percorso: l’effacement e l’ignorance.

Jaccottet

L’effacement

Il primo passo è l’obliterazione dell’io, di quella corazza fisica e mentale che impedisce la partecipazione immediata al Tutto. L’effacement soit ma façon de resplendir recita un verso celeberrimo del poeta. Come a dire che soltanto grazie alla cancellazione dell’io è possibile ricostituire la sensazione di ancienne alliance col mondo fino ad esserne illuminati. Come il giunco animato dal vento, o la medusa accarezzata dall’acqua, il poeta scopre di essere attraversato dallo spirito universale. Scordando il mito dell’io e ciò che lo alimenta (volontà, intelligenza, sentimenti, …), il poeta diventa espressione del Tutto, ricostituendo una plénitude perdue in cui non ci sono distanze:

Libérée du souci de soi, la conscience n’en est que plus disponible pour s’offrir à un plus juste rapport avec la grande scène à la quelle nous sommes quotidiennement assignés ; avec les éléments matériels que les présocratiques disaient divins: la terre, l’espace, l’air, la lumière, le vent, le temps.

Brûler en esprit tous ces livres, tous ces mots pour s’ouvrir à la pluie qui tombe.

Oui: c’est la lumière qu’il faut à tout prix maintenir. Quand les yeux commencent à n’y plus voir, ou rien que des fantômes, rien que des ombres ou des souvenirs, il faut produire des sons qui la préservent, radieuse, dans l’ouïe…

La natura porta in sé una Innigkeit divina che attende la redenzione da parte di uno sguardo complice e partecipe. Uno sguardo chiaro, che può nascere soltanto nell’immediata prossimità alle cose, scartando tutto ciò che ci separa da esse (a cominciare dagli addentellati dell’io: orgoglio, invidia, volontà, desiderio, possesso, …)

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L'ignorance

Il secondo passo è la pratica dell’ignoranza. Essa è di fatto una conseguenza dell’effacement: la self-oblitaration impone infatti la negazione di ogni erudizione, cultura, sapere. Seule demeure l’ignorance: ignoranza intesa come apertura (senza pregiudizi) al reale, alla sua carica di senso, alla sua verità nascosta.

La verità della pioggia che cade e più in generale del mondo che ci attornia resta inaccessibile a colui che crede di sapere. Solo l’ignoranza è la premessa per una conoscenza vera, sempre inedita ed aurorale. L’errore di colui che crede di sapere è errore di presunzione: presumere che il sapere personale abbia un valore assoluto. Se si vuole essere trasparenti al reale, occorre, come ribadisce Jaccottet in Le travail du poète, spogliarsi, immiserirsi, liberarsi del proprio sapere, dei propri preconcetti, fors’anche della propria memoria:

Plus je vieillis et plus je croîs en ignorance,
Plus j’ai vécu, moins je possède e moins je règne.

La lumière

L’ignoranza (sempre aperta, inquieta di risposte), la discrezione e l’effacement sono i garanti della poesia di Jaccottet, una poesia che per oltre settant’anni è concresciuta sull’incessante contemplazione dell’universo. E che ha saputo farsi specchio di tous le accidents de la lumière du monde, ovvero ha saputo intravedere le infinite manifestazioni di quella la luce che inestinguibile si cela (e affiora) in tutte le cose. A caccia di questa luce è andato di Jaccottet, non solo nella sua poesia ma anche nella sua vita, tenendo fede ad un’agnizione che lo colse da giovane: Dès le matin, la lumière parle et je l’écoute. Questa luce, che tutto ingloba e tutto attraversa, è stato il faro della vita di Jaccottet. Ad essa il poeta romando si è votato, senza mai tradirla. Anzi, mostrando incessante fiducia. E questo non solo nei momenti di gioia, ma anche in quelli di depressione, consapevole che per non esserne abbandonato, occorreva fare di tutto per tenerla viva, questa luce:

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