Letteratura

Pier Paolo Di Mino

Il romanzo “Lo splendore”, di cui è uscito il primo volume, “L’infanzia di Hans”, si annuncia come un’opera-mondo con cui fare i conti

  • 21 giugno, 07:51
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Di: Marco Alloni

La prima considerazione che viene in mente leggendo Lo splendore di Pier Paolo Di Mino (Laurana Editore, collana “Fremen” diretta da Giulio Mozzi) è: “Finalmente un autore con un pensiero!”

E non si tratta di un pensiero qualsiasi, non si tratta – come ci stanno abituando le lettere contemporanee – di un pensierino o di una preoccupazione ombelicale, bensì di un’indagine sulla natura stessa della realtà, che, come in ogni romanzo escatologico, presuppone un percorso iniziatico.

Si badi bene: non escatologico nella misura in cui si ambisce a un’umanità rinnovata, bensì a una salvezza da quella che potremmo chiamare rassegnazione all’insignificanza: ovvero la coazione a disinteressarsi alla cognizione di “bene”.

L’idea essenziale, fondativa e fondamentale, che sottende al romanzo è in effetti l’incontro tra due fedi: quella nel socialismo e quella nella vita, che nelle loro convergenti realizzazioni si ritrovano nella ricerca e nella celebrazione dello splendore: lo splendore essendo, non tanto un elemento decorativo-ornamentale dell’esistenza, ma il suo ultimo precipitato, in cui si riconosce la presenza del bene indifferentemente se inteso come bene sociale (da cui la fede nel socialismo) o come bene in sé (da cui la fede nella vita).

Si tratta di un tema che ho accostato a mia volta, sebbene in forme diverse, nel mio Il quaderno di Kavafis, in cui un giovane profeta insegue un’ideale conciliazione tra giustizia divina e giustizia terrena, nel nome appunto di quella celebrazione della vita che entrambe moralmente le unisce. Scrive Di Mino attraverso un suo personaggio: “Tutto ti parla, in continuazione, della stessa cosa meravigliosa piena di Dio. Intendo la vita, che non è la piccola cosa che crediamo di vivere nel chiuso di noi stessi, ma è una cosa molto più grande, che ci lega tutti come in un’unica storia. Se non hai la fede, però, tu non la vedrai mai la cosa meravigliosa, e continuerai a vivere la tua piccola vita”. E aggiunge, poco oltre: “Dio ci mette sempre in mezzo alla sua storia meravigliosa piena di splendore. Sta a noi accorgercene, con la fede”.

Romanzo tentacolare, necessariamente filosofico oltre che poetico – è singolare come si tenda a dimenticare che non esiste narrativa responsabile senza filosofia – Lo splendore è anche un inno al patrimonio dell’oralità, o meglio all’oralità come patrimonio della saggezza popolare. In un linguaggio mimetico rispetto a quanto la vita custodisce in sé di quintessenziale – ma soprattutto di intelligibile anche agli animi più semplici – la narrazione si gioca su un registro di prosa orale in cui si innesta naturalmente il discorso alto del pensiero autorale di Di Mino.  

Dal pensiero a suo modo elementare, ma di forte originalità, che sgorga dalla normalità dei suoi personaggi – necessariamente sommersi nei patemi dell’indigenza e della sopravvivenza – si innalza infatti quello filosofico stricto sensu dell’autore, che ci incoraggia a riconoscere come proprio lo status della privazione sia l’estrema – elegante ma primordiale – fucina di che cosa abbia da intendersi per filosofia esistenziale, aurorale, cioè per filosofia dello splendore.  

Detto questo, non dimentichiamo che Di Mino è debitore, oltre che della letteratura escatologica moderna (da Döblin a Hesse a Broch), anche della cultura sapienziale antica, che nel testo fondativo della cabala, lo Zohar, ha probabilmente la propria matrice. E non dimentichiamo che a Jung deve indubbiamente l’essenziale di quel che ha da intendersi per “rilettura mitica del reale”.

Un patrimonio che si è coalizzato, per così dire, intorno a un libro che ha come suprema ambizione mostrarci la realtà – ovvero la storia, ovvero il tempo – come un eterno mutamento, tra le cui fibre nulla può dirsi “vecchio” o “superato” se non per chi del passato ha deciso – come gran parte degli autori italiani di oggi – di fare strame in nome del contemporaneistico.

Merito dunque a Di Mino anche di questo: aver osato suggerirci che se vogliamo andare avanti, accordarci all’essenza che è nel movimento temporale, dobbiamo saperci volgerci all’indietro.

Ci vorrà tempo, è evidente, affinché questo romanzo – e i successivi che Di Mino ha in cantiere per la sua saga da Mahabharata – sedimenti tra il lettorato nostrano. Ci vorrà del tempo e ci vorranno critici addestrati. Ma chi vola alto non può lamentarsi di avere le vertigini: il pegno da pagare, se si sceglie l’opera totale, è la totale solitudine.

E tutto il mondo fuori

Alice 15.06.2024, 14:35

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