Letteratura

Ritorno alla giovinezza (mai) perduta

“Viaggio a Norimberga” di Hermann Hesse: tra realtà e immaginazione, sapendo che la vita è “una grande fregatura”

  • 4 ottobre, 08:29
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Di: Mattia Mantovani 

La lunga vicenda umana e artistica di Hermann Hesse, come quella di molti altri scrittori che hanno vissuto più o meno da vicino la barbarie nazista, si è svolta all’insegna di quella Germania che Bertolt Brecht aveva definito bleiche Mutter, “pallida madre”. E nel suo complesso, dall’inizio alla fine, è stata un’esistenza “disperatamente tedesca”. L’espressione “disperatamente tedesco” – con l’accento posto sull’avverbio verzweifelt, che nella sua etimologia, prima ancora della disperazione, esprime il dubbio nonché la difficoltà di sanare la scissione tipicamente tedesca tra il disordine della vita e le irrinunciabili ma spesso compromissorie istanze ordinatrici della coscienza – è stata coniata non a caso da Thomas Mann, il più tedesco e con ogni probabilità il più segretamente disperato dei disperatamente tedeschi.

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Non deve quindi stupire che sia stato lo stesso Mann, negli anni dell’esilio americano, a cogliere il nucleo più profondo dell’esistenza disperatamente tedesca del quasi coetaneo Hesse. In uno scritto del 1947, infatti, celebrando il settantesimo compleanno del fraterno amico che da più di vent’anni aveva preso la cittadinanza svizzera, Thomas Mann si chiese fino a che punto Hermann Hesse potesse ancora essere considerato tedesco, e trovò una risposta molto chiara ed esplicita: «Il suo germanesimo è quello antico, gaio, libero e spirituale, che innalza l’elemento familiare su un piano nuovo, direi rivoluzionario; rivoluzionario non nello stretto senso politico e sociale, bensì in quello spirituale e poetico: in maniera autentica e sincera, esso vede e sente il futuro». 

E’ precisamente in virtù di tali caratteristiche che al tedesco Hesse, secondo Mann, si potevano ascrivere due grandissime qualità: «Dire al suo stesso popolo quelle verità che nemmeno le più terribili esperienze gli hanno insegnato, ed essere conscio dei misfatti che questo popolo, così pieno di sé, si è addossato nella sua pazzia». Il giudizio di Mann – che tra l’altro è indirettamente autobiografico, nella misura in cui l’autore del Doctor Faustus, parlando di Hesse, parla anche di se stesso – è davvero illuminante, perché il germanesimo di Hesse (soprattutto quello che ha preso forma nella sua terra d’origine, la Svevia e più nello specifico la zona della Foresta Nera) costituiva una preziosa eredità culturale da custodire ma anche un’oscura condanna da espiare.

Per “espiare” concretamente il proprio germanesimo, Hesse aveva scelto negli anni di gioventù la strada più tradizionale, quella del viaggio in Italia di ascendenza classica e romantica, ma declinandola alla luce di una sensibilità moderna. E in seguito, negli anni della maturità, ha trovato una soluzione a mezza via stabilendosi a Montagnola, in un ambiente per molti versi già mediterraneo ma ancora con tratti nordici. Tuttavia, come diceva giustamente Ennio Flaiano, il “paesaggio” reale e metaforico della giovinezza è l’unico paesaggio che, lo si voglia o meno, non abbandoniamo mai e al quale facciamo continuamente ritorno.

Nel caso specifico di Hesse, il ritorno ha una data ben precisa, l’autunno del 1925, quando lo scrittore quasi cinquantenne – nel pieno di una crisi creativa ed esistenziale che ha poi trovato sbocco in alcune delle sue opere più belle, ariose e “leggere” nel senso alto, nobile e mozartiano del termine – intraprese un lungo viaggio di due mesi che dal Canton Ticino lo portò a Norimberga passando per Zurigo, Augusta e Monaco (con doverosa visita all’amico Mann, «quell’uomo che si applicava al lavoro con tanta costanza e serietà, pur conoscendo così a fondo le incertezze e le disperazioni del nostro mestiere»), e soprattutto per quei paesaggi e quei luoghi della Germania sud-occidentale – Tuttlingen, Blaubeuren e Ulm, lungo il Danubio – che avevano costituito l’orizzonte della sua giovinezza e che Hesse, in ultima analisi, non aveva mai abbandonato. La causa del viaggio era costituita da un breve ciclo di letture nella Germania meridionale, ma le motivazioni autentiche erano ben più profonde e riconducibili, secondo le parole di Hesse, a «innumerevoli frammenti della mia vita precedente». Una ricerca del proustiano temps perdu? Anche, ma non solo.

Un primo ritorno, infatti, per quanto limitato al ricordo e risolto sul piano della reinvenzione e figurazione artistica, c’era già stato nel 1913 con la pubblicazione del bellissimo racconto Nel chiosco di Pressel, che recuperava gli ambienti e le atmosfere del mondo romantico svevo, in particolare quello di Tubinga e degli “antenati” nonché amatissimi poeti Hölderlin, Schiller, Hebel e Mörike. Il paesaggio della giovinezza, nella sua connotazione quasi priva di storia e per così dire ambrata di eternità, è magistralmente evocato da Hesse nelle frasi iniziali: «Correvano gli anni venti del secolo scorso, e se i fatti del mondo erano a quel tempo diversi da ora, splendeva pur sempre il sole, e il vento spirava sulla placida e verde vallata del Neckar in maniera non diversa da ieri o da oggi. Una bella e lieta giornata era spuntata sull’Alb e sovrastava maestosa la città di Tubinga, castello e vigneti, Neckar e Ammer, collegio teologico e collegiata; si specchiava nel freddo fiume lucente e rinviava lievi ombre di nubi giocose sulle selci baciate dal sole nella piazza del mercato».

Simile anche in questo all’amico Mann, che diceva di essere un epigono e non un protagonista della grande cultura tedesca, Hesse individua nel paesaggio della propria giovinezza le coordinate di fondo della propria opera, che si fonda e insieme si giustifica proprio nel fatto di essere l’opera di un epigono: un epigono sensibile e nobile, ma pur sempre un epigono che si è limitato a iterare, in numerose variazioni, i sogni, le idealità, le incertezze e le illuminanti e modernissime nevrosi che gli provenivano dalla tradizione del pietismo svevo, mentre nel caso di Mann provenivano dal rigido e plumbeo protestantesimo anseatico. E’ del tutto ovvio, di conseguenza, che il delizioso e artisticamente perfetto resoconto del viaggio a Norimberga, pubblicato nel 1927, si apra con una «confessione» relativa ai «precisi motivi» che stanno «alla base delle azioni».

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Perché mai una “confessione”? Perché in definitiva quei «precisi motivi», molto semplicemente, non esistono: si viaggia perché si viaggia, esattamente come si vive perché si vive. Secondo Hesse, infatti, si tratta di motivi che «sono sempre oscuri», perché «nella vita la casualità non esiste da nessuna parte, si dà solo nel pensiero». Il concreto viaggio dal Ticino a Norimberga si configura quindi, pagina dopo pagina, come una sorta di goethiana e molto novecentesca discesa alle Madri, un viaggio verso le origini e nella propria personale biografia, dove non è più possibile distinguere tra realtà e immaginazione e soprattutto tra cause ed effetti. Mai come nel Viaggio a Norimberga, forse nemmeno in Siddharta, Hesse si è avvicinato alla verità primordiale della metamorfosi, evocata da Goethe in alcuni celeberrimi quanto vertiginosi versi del Faust (qui nella traduzione in prosa di Giorgio Manacorda): «Gestaltung, Umgestaltung, / Des ewigen Sinnes ewige Unterhaltung / Umschwebt von Bildern aller Kreatur» («Formazione e trasformazione, gioco eterno della mente eterna, circonfuse dalle immagini di tutte le creature»).

Tra i primi e più grandi rappresentanti della nevrosi dell’artista moderno, il romantico Hesse – che si pone scientemente «più o meno al livello del medioevo» – viaggia anzitutto per fuggire dalla civiltà delle macchine e del profitto, nella quale vige «il più stupido dei dogmi umani», quello secondo cui «il tempo è denaro»: «Potrei accennare al fatto che il mio spreco di tempo non è solo pigrizia e disordine, bensì anche consapevole protesta contro il dogma più folle e venerato del mondo moderno».  

Ma c’è anche la fuga dal proprio io, dai condizionamenti e le zavorre della cosiddetta “realtà”, dalla carnevalata dei ruoli sociali, che l’eterno viandante Hesse, con un’ironia romantica degna di Heine e Jean Paul, riassume in alcune considerazioni davvero gustose e divertenti, nonché attualissime a distanza di un secolo (basta aggiungere in due punti l’aggettivo “elettronica”): «Solo quando si sta un paio di giorni senza posta si comprende che cumulo, che farragine di indigesta zavorra bisogna sorbirsi ogni santo giorno della propria vita. E quanto è piacevole riavvicinarsi, grazie all’assenza della posta, a tutto ciò che ti viene il ghiribizzo di pensare, di dimenticare, di fantasticare!».

Più o meno un secolo prima, nel grande romanzo di formazione Enrico di Ofterdingen, il suo amatissimo Novalis poteva ancora chiedersi «Dove andiamo?» e rispondere: «Sempre verso casa» e cioè verso die blaue Blume, il “fiore azzurro”, immagine utopica di un luogo nel quale le contraddizioni e le antitesi dell’esistenza avrebbero infine trovato una soluzione dialettica in una sintesi definitiva. Il viaggio a Norimberga, più ancora dei precedenti viaggi in Italia e in India, è invece un viaggio che ruota intorno a un paradosso, perché il nevrotico Hesse tenta di fuggire da se stesso per ritrovare se stesso, oppure tenta di ritrovare se stesso proprio fuggendo dal proprio io. 

Il tentativo fallisce, ovviamente, e la dialettica rimane aperta, come nello splendido episodio della serata di plenilunio trascorsa nella cittadina di Tuttlingen, quando Hesse ripensa ai versi sulla luna contenuti in una lirica di Hölderlin («Splende stupita, estraniata tra gli uomini / sopra le cime dei colli, triste e sfarzosa») e ha l’impressione, almeno per alcuni istanti, di percepire la voce del grande poeta e di avvertire forse per l’ultima volta il suo canto, che subito svanisce nel nulla: «Quanti profondi momenti di beatitudine, solitari e incomunicabili, mi aveva arrecato, e in quali profondi abissi di sofferenza e lacerazione interiore mi aveva gettato quella voce incantatrice, quell’insidioso canto di una vita più alta, di un’umanità più nobile di quanto ci sia connaturato!».

Ha scritto il già ricordato Ennio Flaiano in un appunto preso a Parigi nel 1965: «La nostra ansia di evadere non è suggerita dalle pareti nude del carcere, ma dagli affreschi che lo decorano, dalle inferriate del sedicesimo secolo, dalle tappezzerie e dai marmi. E soprattutto dalle facce soddisfatte degli altri carcerati». Il canto di Hölderlin è “insidioso” perché non c’è una “vita più alta”, non c’è “un’umanità più nobile”. Il viaggio di Hesse a Norimberga si risolve quindi nella semplice lontananza da un “dove” non meglio precisato e individuabile: «Oggi a Monaco, domani a Zurigo, poi di nuovo a casa, sospinto dall’impulso di sfuggire al dolore, dall’impulso di differire la morte di un altro po’. Perché opponiamo finta resistenza?, mi contristavo. Perché questo è il gioco della vita, rispondevo ridendo». 

Forse il senso del viaggio – di ogni viaggio – consiste nella capacità di «ridurre a formula comica la nostra stupidità e il nostro insulso, angosciante destino umano», perché in caso contrario sarebbe estremamente difficile fronteggiare una realtà/irrealtà simile a quella che il nevrotico e profetico Hesse incontra concretamente a Norimberga, ma idealmente dappertutto: «Tutto minato alla base, tutto vibrante di una vita che non riesco a sentire umana, ma solo diabolica, tutto in procinto di morire, in procinto di diventare polvere, bramoso di crollo e disfacimento per il troppo disgusto del mondo, per la stanchezza di un’esistenza senza scopo, di una bellezza senza anima».

E’ proprio da questa percezione del nulla comune e da questa strana e insolubile dialettica (il «gioco eterno della mente eterna») che nascono il fascino e il gustoso humour di queste pagine, con ogni probabilità tra le migliori in assoluto di Hesse. La dialettica rimane infatti irrisolta, mentre il fastidio si stempera e infine si compone nello «stupore di fronte al fatto che tale penosa esistenza sia nonostante tutto così bella e preziosa». Ma anche in una «stramba tristezza» e nella convinzione che in ultima analisi («mi si passi l’espressione», scrive Hesse, che qui si rivela davvero uno straordinario umorista) «la vita umana è una grande fregatura». 

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