La regola -peraltro confermata da poche eccezioni- vale per tutte le grandi coppie della letteratura: non si può infatti comprendere Goethe senza Schiller, Ibsen senza Strindberg, Frisch senza Dürrenmatt, Coleridge senza Wordsworth, solo per fare alcuni esempi. E viceversa, ovviamente, perché l’insieme è sempre costituito dalla perfetta somma delle due parti, comunque le si consideri. Per quanto riguarda la letteratura italiana del Novecento (ma la definizione è riduttiva, perché bisognerebbe parlare di “cultura” nel senso alto, nobile e piuttosto demodé del termine), la regola ha trovato una conferma nella coppia formata da Carlo Levi e Rocco Scotellaro.
Nel loro caso, tuttavia, a differenza di altre grandi coppie che possono essere comprese e circoscritte principalmente in virtù delle differenze, l’insieme è costituito dalla somma di due parti perfettamente speculari e complementari, soprattutto perché i tratti comuni rimandano a una somiglianza talmente marcata da annullare tutte le differenze di età, provenienza geografica, formazione culturale e ceto sociale. In un passo dell’autobiografia L’uva puttanella, descrivendo l’impressione ricavata dalla lettura di Cristo si è fermato a Eboli, Scotellaro ha parlato di «amore per la propria somiglianza». La definizione -bellissima e penetrante- esprime il senso più profondo della vicina lontananza di due grandissimi autori, che l’odierna Italietta dell’incultura di massa dovrebbe seriamente riscoprire, rivalutare e soprattutto meditare al di là di ogni stanco dovere culturale e delle stucchevoli commemorazioni ufficiali.
In una celebre poesia del 1923, Non chiederci la parola (ripresa negli scorsi anni dal compianto Claudio Lolli nella traccia Non chiedere del suo ultimo disco, Il grande freddo), Eugenio Montale aveva espresso l’amara consapevolezza che manca ormai una “formula” in grado di “aprire” il mondo e spiegare una realtà sempre più screziata, differenziata e in ultima analisi frantumata in migliaia di discorsi che non utilizzano il medesimo codice. Cosa rimane, allora? Poco, pochissimo, forse il «disprezzo muto» quale estrema risposta, come suggeriva Guido Ceronetti. Per quanto riguarda Montale, nient’altro che qualche «storta sillaba», «secca come un ramo», che rimanda a un’essenza non meglio definibile (forse «l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico»), o comunque definibile più per sottrazione che per addizione: «Codesto solo oggi possiamo dirti / Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
È molto suggestiva anche la lieve ma sostanziale variazione (la «spudorata citazione», secondo le sue stesse parole) operata da Lolli: «Tra il dovere e l’intenzione / c’è una linea di alta tensione / che ti brucia le mani e tutto ciò che sei / e invecchiare va bene sì, ma adulto mai / E non chiederci la parola / che mondi possa aprirti / questo soltanto oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». E’ la constatazione della perdita di ogni dimensione utopica, sostituita da un presente opaco e un futuro indecifrabile, verso il quale risulta difficile proiettare progettualità e speranze. Anche se per negazione, una simile consapevolezza è molto utile per capire Levi e Scotellaro.
Il perché è presto spiegato: il “torinese del sud” Carlo Levi, proveniente da una famiglia della borghesia colta, medico per studio ma scrittore e pittore per vocazione, e il lucano Rocco Scotellaro, proveniente da una famiglia di estrazione contadina ma provvisto di uno spiccato talento per lo studio e le discipline letterarie, avevano ancora le parole e la “formula” per esprimere ciò che volevano. Non erano, le loro, storte sillabe secche come un ramo, perché entrambi volevano un’Italia migliore, finalmente liberata dalle strettoie e dalla soffocante sintassi interiore dell’“eterno fascismo”, un sud affrancato da un’arretratezza secolare (come scrive Scotellaro in una sua poesia: «E’ fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi /con i panni e le scarpe e le facce che avevamo»), una struttura politica e sociale che ponesse al centro non già l’interesse privato e il solo sistema economico, ma piuttosto l’essere umano e la sua vita, il rispetto e il riconoscimento del suo lavoro e della sua concreta presenza nel mondo e nella storia.
L’esteso sistema clientelare seguito alla sciagurata riforma agraria del 1950, la silente restaurazione del primo ventennio del secondo dopoguerra -più volte denunciata da Levi anche nella sua attività come parlamentare negli anni Sessanta- e l’inestirpabile cuore di tenebra della politica e della società italiana hanno dato tutt’altra direzione al divenire storico, trasformando le speranze e le progettualità dei due “fratelli italiani” Levi e Scotellaro in un’utopia destinata a rimanere tale. Non c’è stata infatti alcuna saldatura tra il nord operaio e il sud contadino. Anzi, l’industrializzazione e il boom economico del nord e i loschi interessi della bassa politica hanno perfino accentuato il divario. Per farsene un’idea, basti pensare al più disperatamente torinese, amaro e disilluso romanzo del torinese d’adozione Giovanni Arpino, Il fratello italiano, del 1980, che sullo sfondo di una Torino lugubre cancerosa e “robotica”, come la definirà poi l’autore stesso, narra la vicenda del torinese Botero e del meridionale Cardoso, simboli delle “due Italie” uscite ulteriormente divise dal secondo dopoguerra, che si uniscono per arginare, squartandolo e quindi squartando sé stesse, lo «squartamento della vita».
Nato il 19 aprile 1923 in provincia di Matera, nella cittadina di arabo-normanna di Tricarico, della quale fu sindaco dal 1946 al 1950 (era stato eletto nella lista del Psiup, il Partito Socialista di Unità Proletaria), Rocco Scotellaro aveva lasciato il paese natale a soli dodici anni e aveva compiuto gli studi classici peregrinando qua e là per l’Italia, da Matera a Roma, da Potenza a Trento e infine a Tivoli. Nel 1942 si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, ma le condizioni proibitive causate dalla guerra, la plumbea cappa del fascismo e la morte improvvisa del padre, calzolaio di professione, lo costrinsero a tornare a Tricarico. Nel 1944 fondò la sezione locale del Psiup, fu eletto sindaco a soli 23 anni e tra il 1949 e il 1950 partecipò all’occupazione delle terre. E’ morto a Portici, in provincia di Napoli, il 15 dicembre 1953, stroncato da un infarto a soli trent’anni. La sua vita, scriverà Carlo Levi in occasione del primo anniversario della morte, è stata «troppo breve per troppa intensità umana».
Oltre agli scritti di Levi e ad altre fonti dell’epoca, il documento più prezioso sulla sua vita e la sua attività è un racconto scritto da sua madre, Francesca Armento, che sapeva leggere e scrivere e svolgeva le funzioni di scrivano del paese. Il racconto si intitola Dalla nascita alla morte di Rocco Scotellaro ed è di commovente quanto insidiosa bellezza. La notizia della morte, il viaggio da Tricarico a Portici e la visione del cadavere del figlio sono restituiti in questo modo: «Allora è morto! Il mio tesoro! Portatemi presto! In macchina mi portarono a Portici dov’era mio figlio. Sembravo l’Addolorata quando andava in cerca del figlio. Finalmente arrivammo là dove il mio Rocco era disteso sul letto di morte. Sembrava come dormisse. Al solo vederlo, se avevo un colpo di rivoltella ero contenta. Figlio mio, che sogno lungo che ti fai, perché non mi rispondi, perché mi hai abbandonata? Come farò? Io vecchia debbo vivere e tu giovane sei morto. Come debbo fare?».
I versi finali sono invece un’autentica trenodia: «Peccato morire così giovine / non aveva ancora compiuto trentun anno. / Tutto il popolo l’ha pianto. / Lui è andato a godere l’altro mondo / restando tutto a lutto il nero manto. Ecco la morte col suo falcione / che tira da lontano e da vicino: / come ha troncato il mio povero Rocchino». Francesca Armento, nata a Tricarico nel 1884, sopravvivrà quasi quindici anni al figlio e morirà il 29 febbraio 1968.
Talento sorgivo, con un’iniziale propensione alla lirica poi sfociata nella narrativa e nella saggistica, Rocco Scotellaro ha scritto poesie, racconti, articoli, l’autobiografia L’uva puttanella e il saggio-inchiesta Contadini del sud, entrambi rimati incompiuti. I suoi scritti -tra i quali merita di essere ricordata la primissima idea di una sceneggiatura per portare sugli schermi Cristo si è fermato a Eboli (lo faranno Francesco Rosi e Gian Maria Volonté, circa trent’anni dopo)- sono stati pubblicati in larga parte postumi, principalmente per iniziativa di Carlo Levi, che nel 1954 ha curato la raccolta di poesie E’ fatto giorno per la prestigiosa collana dello “Specchio” Mondadori e dieci anni dopo si è occupato della fondamentale ristampa di L’uva puttanella e Contadini del sud, pubblicati in un singolo volume da Laterza. Infine, nel 1974, pochi mesi prima di morire, ha scritto la prefazione alla silloge di racconti Uno si distrae al bivio.
Lo stesso Levi, in un ricordo scritto un anno dopo la morte del giovane amico, ha raccontato la leggenda (tuttora molto diffusa, anche se ormai fatalmente stemperata nell’aneddotica) secondo la quale Scotellaro non sarebbe morto ma si troverebbe nascosto da qualche parte tra i calanchi e le «arse argille di Lucania» (così evocate in una poesia di Levi) e continuerebbe a vegliare sugli amatissimi contadini e il loro destino. Comunque sia, il “sindaco contadino”, al quale si deve tra l’altro nel 1947 l’edificazione dell’ospedale di Tricarico, rimane vivo per tutti coloro che avvertono nel suo ricordo e nella sua costante presenza, si vorrebbe quasi dire nella sostanza del suo “esserci” proustiano a prescindere dall’accidente biologico della morte, un punto di riferimento e l’indicazione di un percorso. Dicono i versi di Sempre nuova è l’alba, una poesia del 1948: «Spuntano ai pali ancora / le teste dei briganti, e la caverna, / l’oasi verde della triste speranza, / lindo conserva un guanciale di pietra. / Ma nei sentieri non si torna indietro. / Altre ali fuggiranno / dalle paglie della cova, / perché lungo il perire dei tempi / l’alba è nuova, è nuova». E’ quasi un manifesto poetico, sicuramente è un programma di vita, con l’idea di una nuova alba oltre “il perire dei tempi”.
Levi e Scotellaro. Scotellaro e Levi. Così lontani, così vicini. Parlando di Max Frisch e Friedrich Dürrenmatt, il critico letterario tedesco Hans Mayer aveva scherzosamente proposto la denominazione “FrischundDürrenmatt”, un simpatico mostro lessicale da scriversi tutto unito e da pronunciarsi senza pause per la respirazione. Forse si potrebbe fare lo stesso per il “torinese del sud” e il “sindaco contadino”: “LevieScotellaro”, da scriversi egualmente tutto unito e da pronunciarsi in un solo fiato. Anche perché la loro amicizia è davvero una storia tutta da raccontare, che comincia nel maggio 1946. Esattamente dieci anni dopo il periodo di confino trascorso a Grassano ed Aliano, il 44enne Levi, che nel frattempo ha scritto e pubblicato Cristo si è fermato a Eboli, torna in Lucania durante la campagna elettorale per l’Assemblea Costituente e incontra il 23enne Scotellaro, che ha letto il libro e si sta battendo per migliorare le condizioni dei contadini.
Più che di un’amicizia, si può forse parlare di un’affinità elettiva: incontri, dialoghi, viaggi, progetti, speranze (utopie?), non da ultimo il decisivo intervento di Levi nel febbraio 1950 presso la Corte di Appello di Potenza, nel momento in cui Scotellaro, allora sindaco di Tricarico e inviso alle mafie locali, fu incarcerato a Matera con l’accusa di associazione a delinquere, truffa, falso in autorizzazione amministrativa e malversazione continuata aggravata. Dopo quarantacinque giorni dietro le sbarre, poi raccontati in alcuni capitoli de L’uva puttanella, Scotellaro fu rimesso in libertà per la totale inconsistenza delle accuse. Deluso dalla politica e dai suoi intrallazzi, nel 1950 lasciò la carica di sindaco e si trasferì a Portici, presso l’Osservatorio di politica agraria diretto da Manlio Rossi-Doria, concentrandosi su una serie di studi e inchieste, tra cui Contadini del sud, solo in parte condotti a termine.
«Il coraggio non è semplice eroismo, ma un drammatico compito quotidiano», ha osservato Carlo Levi in uno dei tanti scritti dedicati all’amico prematuramente scomparso («a me sopra tutti carissimo», lo definirà a dieci anni dalla morte, nell’introduzione all’edizione del 1963 di Cristo si è fermato a Eboli). Il che è indubitabilmente vero e fa pensare, per analogia, alla figura di Piero Gobetti, amico di gioventù di Levi a Torino nonché maestro di vita e pensiero, anch’egli scomparso in giovane età nel breve esilio parigino (per l’aggravarsi di una bronchite e un conseguente scompenso cardiaco, ma principalmente per le infami persecuzioni e vessazioni della canaglia fascista).
Anche la vita di Scotellaro, esattamente come quella di Gobetti con l’utopia della “rivoluzione liberale”, ha espresso il sogno di un’Italia diversa (più compiuta e matura, finalmente moderna), la «grandezza di un destino breve» e l’idea della “poesia” intesa etimologicamente quale “creazione” della realtà, «scoperta della verità» e impegno per la sua affermazione. Perché Rocco Scotellaro era veramente come l’uva puttanella citata nel titolo della sua autobiografia: un tipo di uva che si caratterizza per gli acini maturi ma piccoli, costretti a lottare per la sopravvivenza in mezzo ad acini più grandi, che tendono a sopraffarli. La metafora esprime quindi il dolore della nascita, l’ingresso nel tempo, l’angoscia dell’individuazione e della divisione, la vita come esilio e solitudine lungo il perire dei tempi, in terre «senza redenzione perché senza peccato», come si dice in un passo di Cristo si è fermato a Eboli. A distanza di interi decenni, in un clima sociale e culturale solo apparentemente mutato, la sua eredità rimane quella evidenziata e consegnata a futura memoria dal paterno e fraterno amico Carlo Levi: «Il cammino percorso da Rocco Scotellaro in così pochi anni era quello di secoli e secoli di cultura: troppo rapido per il suo piccolo, fragile cuore contadino».
Rocco Scotellaro, "Mare lontano"
Colpo di poesia 04.09.2020, 22:00
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