Scritto poco più che trentenne, quando la cosiddetta «civiltà danubiana» stava esalando i suoi ultimi aliti, Confessioni di un borghese di Sándor Márai è forse il romanzo più esaustivo per capire cosa abbia da intendersi per «spirito borghese».
Tutta la prima parte del romanzo ne è la delucidazione in forma descrittiva. Non tanto e non solo perché l’ambientazione borghese – in un’Ungheria che vive in forma quasi rassegnata il crollo dell’Impero asburgico – fa da cornice alla narrazione, ma perché entro tale cornice la borghesia effonde tutte le sue più peculiari caratteristiche: da quelle domestico-ornamentali, degli arredi e della mobilia che il borghese compiaciuto pretende di ospitare nelle proprie abitazioni, a quelle etico-comportamentali che in qualche misura rappresentano la cifra di quanto il buon borghese rivendica come suo status e suo privilegio.
Senza temere di prestare il racconto a lunghissime descrizioni degli ambienti e delle abitudini di chi li abita, Márai ci espone così dello spirito borghese praticamente ogni risvolto: sappiamo come e dove sorgono le classiche abitazioni della media e alta borghesia, sappiamo come sono organizzati i loro interni e quali ostentazioni di cattivo gusto investono ogni singolo vano di ogni singola casa, sappiamo quali letture obbligatoriamente e per statuto vi si svolgono e quali discorsi dominanti vi tengono banco, sappiamo quali siano le modalità di comportamento dei padroni con i servitori e quali abiti indossino gli uni e gli altri, sappiamo quali cibi si consumino e quanta importanza rivestano per le famiglie borghesi il denaro e i possedimenti che esso garantisce. Sappiamo, come se ci trovassimo al cospetto di un manuale di «sociologia della borghesia», che la borghesia non è solo un destino ma una condizione difesa a denti stretti da chi ne ha accolto il privilegio.
Non a caso questa lunga parte del romanzo sembra sospendere ogni possibile suspence (si perdoni il gioco di parole) per offrirci il quadro di un’immobilità che sembra immutabile in se stessa, quasi restia a ogni possibile epicità. Tutto è fermo, tutto si ripete identico a come il borghese pretende che si ripeta, tutto esala un senso di stasi, tutto risuona del monotono ticchettìo di una domesticità senza orizzonti e senza svolte.
Si dirà: siamo al cospetto di un anti-romanzo, di una forma post-ottocentesca di «romanzo ambientale». Invece Márai costruisce su questi presupposti di immobilismo e di coazione all’identico una storia che grado a grado, capitolo dopo capitolo, vicenda dopo vicenda, si apre alla rottura e al cambiamento. Al punto che le «confessioni di un borghese» si delineano via via come le confessioni di un «borghese pentito» o di un borghese che mira al riscatto dal proprio status borghese.
Si tratta di un topos abbastanza tipico della letteratura mitteleuropea: laddove tutto sembra congiurare per conservare l’esistenza nel quadro della stabilità, dell’ordine e del conformismo, il destino sopravviene a sparigliare le carte e a proporre i suoi afflati di dissoluzione e trasformazione. È l’antica dicotomia – così efficacemente analizzata da Claudio Magris – tra unità e dissoluzione, che per lo «spirito mitteleuropeo» rappresenta il grande demone dell’identità. Insomma: con la conservazione o con la rivoluzione, con l’Impero o con la sua decadenza, con il passato o con il futuro, con la borghesia o con il suo rifiuto?
Il romanzo di Márai propone come risposta quella più classica e battuta dagli scontenti di ogni epoca, in particolare dalle vittime del crollo dell’Impero asburgico: la fuga. L’Io narrante comincia infatti un’interminabile peregrinazione per un indistinto altrove che solo con il trascorrere del tempo si precisa in luoghi di volta in volta tangibili: Lipsia, Weimar, Francoforte, Berlino, Parigi, Firenze, Medio Oriente...
Si tratta però soltanto di fuga o soprattutto di una emancipazione dalla patria e dalla borghesia che in essa si identifica? La risposta corre in filigrana lungo tutto il romanzo: laddove l’idea di patria viene a cadere, non resta che ricostruirla attraverso una perpetua erranza e un altrettanto perpetuo slancio verso il passato e l’infanzia. Lì, dove ancora tutto è intatto, si può infatti assaporare qualcosa di simile all’innocenza, un’innocenza che la Storia tende spesso a pregiudicare, ma che un «borghese pentito» può ritrovare proprio grazie al pentimento e alle tensioni verso il futuro e l’ignoto che esso porta con sé.