Letteratura

Samuel Beckett approda nei Meridiani

La curatela di Gabriele Frasca apre percorsi inediti

  • 7 febbraio, 08:21
  • 7 febbraio, 09:18
Samuel Beckett
  • Keystone
Di: Lou Lepori

Quando si parla di Samuel Beckett (1906-89) i superlativi si sprecano: gigante della letteratura, monumento dell’avanguardia, artista radicale. Premio Nobel nel 1969, lo scrittore franco-irlandese presenta tutte le caratteristiche del mito. Le sue fotografie ci mostrano il profilo di un uomo spigoloso e segaligno – come una scultura del suo amato Giacometti –, il volto aspro, gli occhi spiritati…

Beckett porta con sé anche la fama di autore difficile, oscuro e pessimista, un rappresentante del secolo breve e dei suoi orrori. Resistente in gionventù, fu seguace dell’ostico James Joyce; un coltissimo poliglotta, che dal Trinity College (dove impara l’italiano con Bianca Esposito) alla casa di riposo Le Tiers Temps si porta appresso per tutta la vita la Divina Commedia di Dante. I suoi romanzi appaiono densissimi e la sua poesia è segnata dal senso dell’indicibile e dell’umana disgrazia, da una sfiducia cosmica prossima all’afasia: «Dire per sia detto. Sdetto. Da adesso dire per sia sdetto», scrive nel 1983 in Cap au pire, originariamente composto in inglese sotto il titolo marinaresco Worstward Ho.

Ma l’opera di Beckett è anche percorsa da una vena ironica e spiazzante, dalle parodie giovanili del Cid di Corneille fino alle poesie ultime intitolate Mirlitonnades: i “vers de Mirliton”, in francese, sono poesie goffe e amatoriali. Per non parlare del teatro, che l’ha reso celebre a partire dallo scandalo di Aspettando Godot, nel 1953. Sulla scena del suo “teatro dell’assurdo” (l’espressione fu coniata da Martin Esslin) troviamo figure di clown al guinzaglio, mezze tacche o donnette logorroiche, vecchi patetici e paralitici ciechi; con un gusto per la clownerie che lo porterà, in occasione della realizzazione del suo unico Film per il cinema (1965), a cercare in America un ormai dimenticato Buster Keaton (quello vero, come cantava Guccini).

Per Beckett il sublime è sempre accompagnato dal triviale, la metafisica non dimentica la concretezza degli oggetti e la pesantezza dei corpi (due sue pièce si chiamano Atti senza parole), la poesia è capace di sussurri ma anche di grida, sul ciglio in cui la lingua «si tenta, si tende, tenta di tenersi al punto di estinzione del voler-dire», come scriveva il filosofo Jacques Derrida.

E poi: Beckett è un artista che non conosce le frontiere dei generi, che le supera a balzi, passando dal racconto alla poesia in prosa, dal teatro alla radio, dal cinema alla televisione, sempre alternando inglese e francese, una lingua che diceva di voler usare “senza stile”. La televisione è il suo approdo ultimo, anche lì innova e inventa, crea partiture di movimenti geometrici con uomini incappucciati che corrono su una grande scacchiera (Quad, 1981) o ombre sfuggenti su uno schermo nero (Nacht und Träume, 1982). Realizzazioni che smarginano nella videoarte.

Non è un caso che il recentissimo volume su Beckett, curato da Gabriele Frasca, per i Meridiani Mondadori porti il sottotitolo “Romanzi, teatro e televisione”: 1700 pagine, con traduzioni in gran parte inedite, che sostituiscono – per quanto riguarda il teatro – le storiche versioni Einaudi di Carlo Fruttero. Quello che Frasca ci presenta è un autore rifratto, sorprendente, transmediale e sconfinante, capace di un’autorialità diffusa e di un’infinita ricchezza, pur essendo stato fedele a una ristretta quantità di temi e figure. Più che un monumento, un autore infinitamente e sempre nuovamente da rileggere.

Il dossier consacrato a Samuel Beckett in Alphaville accoglie ai microfoni di Rete Due Gabriele Frasca (curatore del Meridiano), Marion D’Amburgo (attrice e co-fondatrice dei “Magazzini Criminali”), Daniela Caselli (studiosa di Dante e Beckett), Lucia Esposito (per parlare dei radiodrammi) e Luca Scarlini (che ha studiato le regie beckettiane: in teatro, cinema, televisione).

Dossier “Beckett: tradurre un gigante” (1./5)

Alphaville 05.02.2024, 12:05

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