Letteratura

Stay in the fight

Le storie di F.X. Toole

  • 12.11.2023, 08:59
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Di: Daniele Bernardi 

Quando nel lontano febbraio 2005 vidi Million Dollar Baby piansi come un ragazzino. Ero al cinema Tibur, nel quartiere romano di San Lorenzo, e dalle prime file qualcuno potrebbe anche essersi girato per dirmi di piantarla. Non ricordo se fossi in compagnia o solo, ma non ho dimenticato il momento che mi mandò più giù di testa: quando Maggie Fitzgerald, ormai paralizzata dopo l’incontro con Billie «Orso Blu» – un’ex-prostituta di Berlino Est nota per le sue scorrettezze sul ring –, si mozza la lingua coi denti cercando di morire dissanguata.

Ma non fui il solo a passarsela male, allora. Leggo in F.X. Toole: essere pugile, la postfazione di Antonio Franchini alla raccolta di racconti da cui il film di Clint Eastwood è tratto, che l’editore italiano Tullio Pironti (1937-2021) dovette abbandonare la sala perché «non ce la faceva a reggere».

Ora, è noto che Pironti è stato anche boxeur (sul serio, non per gioco), che ha combattuto parecchi incontri, dei quali molti persi. Quando raccontò di questa sua debolezza disse: «Com’è possibile che non riesco a vedere questo film fino alla fine? Io sono pugile!». Dopo qualche tempo, infatti, tornò al cinema per arrivare in fondo alla pellicola, ma per farlo dovette ricorrere proprio «al suo essere pugile», cioè a quell’indole che permette, come scrive Toole, «to stay in the fight».

Scrive Franchini: certo «a F.X. Toole avrebbe fatto piacere saper di aver concepito e scritto una storia che, per essere letta (…), avrebbe chiesto al lettore-spettatore di fare appello alla sua natura di pugile».

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Di origini irlandesi, Toole – il cui vero nome era Jerry Boyd (Long Beach, 1930 – Torrance, 2002) – si appassionò alla boxe da adolescente, grazie alla mania del padre, che condivise con lui questo amore agli occhi di molti insensato. Ma allora si trattava ancora di una passione da tifoso, che al massimo lo costringeva a starsene in ginocchio durante le radiocronache o a fare del Madison Square Garden il suo personale tempio di devozione. Il vero inizio avvenne dopo, oltre i quarant’anni, quando «per scelta e per caso» Toole si decise davvero a imparare.

Come dice bene nel suo più celebre racconto, «tutto, nella boxe, va contro natura. Vuoi andare a sinistra, non fai un passo a sinistra, ma spingi sul piede destro (…). Anziché evitare il dolore, (…) gli vai incontro». Per anni si era chiesto «cos’è che fa di un pugile un pugile». Cosa fa sì che alcuni scelgano di incassare cartoni col preciso imperativo di non cedere, barcollando in direzione di qualcosa che sta come oltre il nemico – qualcosa in cui pare essere in gioco la propria dignità.

Certo, detto così sembra di parlare di una prosa «più americana del football». Eppure mosso da questa semplice domanda e attraverso il suo cammino Toole ci ha consegnato alcune indimenticabili vicende di vita, amore e morte della letteratura statunitense (James Ellroy le ha definite «le migliori storie di boxe mai scritte»).

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Quando l’ormai famosissimo film di Eastwood arrivò nelle sale, Toole era scomparso da due anni (un po’ come avvenne al ben più prolifico Philip K. Dick, che morì pochi mesi prima dell’uscita di Blade Runner e non ne vide il successo). A quanto pare aveva collezionato una lunga serie di rifiuti editoriali prima di arrivare alla pubblicazione delle novelle raccolte sotto il titolo Rope burns. Stories from the Corner (2000), inizialmente tradotte in italiano col titolo Lo sfidante (2001) e note oggi invece come quelle di Million Dollar Baby. Per sbarcare il lunario aveva fatto di tutto, dal lustrascarpe al barista, ma, soprattutto, da quando era salito sul ring non aveva più mollato quel mondo per il quale aveva coperto tutti i ruoli, dal combattente all’allenatore, dal massaggiatore al cuci-tagli.

Parallelamente aveva portato avanti la scrittura, da lui concepita come una diretta discendenza della sua vocazione pugilistica (perciò nei suoi testi nulla appare posticcio, ma saldamente fondato sul sapere), e nel cassetto conservava, fra le altre cose, il suo solo romanzo, che vide la luce postumo: Pound for Pound (2006).

I meriti del film di Eastwood sono molteplici – da alcuni è considerato il suo miglior lavoro e i riconoscimenti sono stati tanti, sia per l’opera che per interpreti quali la bravissima Hilary Swank e il grande Morgan Freeman – ma ce n’è uno che forse è meno noto o, inevitabilmente, non accessibile a chi non conosce la scrittura di F.X. Toole.

Benché la sceneggiatura di Paul Haggins si fondi principalmente sulla novella della ragazzina da un milione di dollari, la narrazione si nutre anche degli altri racconti dello scrittore. Un esempio su tutti, in questo senso, lo si ha nella figura di Dangerous Dillard, personaggio di contorno e, al contempo, importante nell’accompagnamento della storia. Infatti la sua presenza di pugile «tutto cuore» non appartiene al racconto di Maggie ma ad Acqua ghiacciata, brano del quale è nientemeno che protagonista. Ecco che però Haggins lo inserisce deliberatamente nella trama.

Forse perché per Toole i perdenti, gli sfigati che le prendono e non ce la fanno a tirarsi su, sono centrali nella boxe: è come se essi da un lato incarnassero il grande sogno e, dall’altro, il costante fallire umano che comunque ci accompagna anche se vinciamo. Un po’ come a dire: stai in campana, campione, che dentro da qualche parte tu pure hai il tuo Dangerous Dillard che finisce al tappeto.

01:13

Clint Eastwood fa 90

RSI Info 31.05.2020, 12:57

  • RSI/A.I.

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