Julien Sorel, il protagonista de Il rosso e il nero di Stendhal, potrebbe apparire, sulle prime, l’anticipatore della moderna figura dell’arrampicatore sociale. Figlio di un falegname – o, come si diceva nell’Ottocento, di un legnaiolo – è infatti, lungo tutta la parte iniziale del romanzo, una sorta di paradigma dell’ambizioso “voltagabbana” che tanta parte ha avuto e continua ad avere nell’odierna società del benessere, dell’arrivismo e dell’etica rovesciata del successo à tout prix.
Ma poi il discorso di Stendhal si complica, i suoi intenti si fanno più sottili, la narrazione svela carte sempre meno scontate. E seppure Sorel continui ad apparirci, nella sua veste di sognatore, di eroe della volitività, come un precursore dei grandi capitalisti contemporanei, sorti spesso da una condizione di subalternità economica e legati al mero principio dell’interesse – incarnando così il prototipo dello “scalatore sociale” senza scrupoli, per il quale unica preoccupazione parrebbe essere il raggiungimento della ricchezza o del prestigio – poi scopriamo che egli è in verità l’unica figura degna di considerazione e rispetto di tutto il libro.
Nel progressivo “disfarsi” del sistema monarchico e religioso, il cui solo orizzonte di senso è quello dell’accumulo di denaro e dell’acquisizione di potere, in un Ottocento confrontato con la Restaurazione e l’ascesa progressiva del capitalismo come “modello di vita”, egli si staglia infatti, per così dire, come una sorta di idealista appassionato del giusto, del profondo, del passionale come, a conti fatti, nessun altro dei deuteragonisti del racconto riesce a essere.
Ambizioso come Napoleone, il suo modello inconfessato e inconfessabile – siamo in un’epoca, ricordiamolo, in cui liberale e giacobino appaiono alla Chiesa e alle nobili maestranze come anatemi assoluti – Sorel oscilla pertanto tra “conservazione” e “progressismo” cercando una via di affermazione il più possibile dignitosa, che gli è nondimeno continuamente preclusa. Certo, si potrebbe credere che la sua esistenza sia improntata a quella che oggi chiameremmo “carriera”, poco importa a prezzo di quali compromessi, di quali simulazioni o dissimulazioni, di quale rinuncia a se stessi, di quale spregiudicatezza e di quanta incoerenza morale. Ma in realtà questa “ambizione”, questa “carriera”, sono tentativi estremi, spesso disperati, di imporre al mondo ciò che il mondo, quel mondo laido, corrotto, materialista e gretto che investe la società primo-ottocentesca, non è disposto ad accogliere. In primo luogo, il pregio dell’integrità, dell’innocenza e dell’idealismo politico.
Precettore e latinista presso la distinta famiglia del sindaco del villaggio montano di Verrières, il signor de Rênal, Sorel è certamente un seduttore. Non solo della moglie del sindaco ma, in primo luogo, di qualunque figura possa garantirgli un passo in più nel suo cammino verso la gloria. Ondivago, smaliziato, nondimeno a suo modo puro, cede facilmente alle seduzioni del successo. Eppure, altrettanto disinvoltamente, spesso con rancorosa insoddisfazione, soggiace anche agli imperativi del sentimento con tutta l’immacolatezza di un eroe romantico. Ama per convenienza, speculando sulle debolezze femminili? Ama per calcolo, valutando il valore umano in rapporto a quanto gli procura in termini di ascesa sociale? In un certo senso sì. Ma ama anche perché nel fondo della sua coscienza si annida una fervida, fanatica e incrollabile ammirazione per qualsiasi forma di eroismo: a partire da quello di veleggiare incontaminato sulle aberrazioni del tempo per arrivare a quello di superarne le nefandezze.
Quindi ecco che nel presentarci Sorel come eroe, Stendhal dipinge in realtà un universo sociale che egli “condanna”, di riflesso, con la propria rettitudine e il proprio rigore.
È vero, Sorel può allearsi, con la stessa riottosa ritrosia e lo stesso cinico distacco, tanto con il curato quanto con il liberale, tanto con il nobile quanto con il plebeo, tanto con il decaduto quanto con il vittorioso. A seconda di quanto ne possa beneficiare in vista dei suoi fini, sa barcamentarsi, dentro il confuso e opaco mondo della Restaurazione, come se la sua sola mira fosse il riscatto dalla sua originaria condizione di subalterno. Ma in pari tempi tale origine, tale riscatto, li porta in sé come tesori irrinunciabili, come pietre angolari della sua necessità e vocazione a scoperchiare la prosaicità di quello stesso mondo. Perché nulla, sembra affermare coi suoi gesti, con la radicalità dei suoi intenti e delle sue idee, è altrettanto disgustoso e riprovevole quanto il contesto sociale che tali subalterni svilisce e vitupera, poco importa se da una posizione borghese, aristocratica o ecclestiastica.
In questo senso si può dire che Julien Sorel non è solo una figura storica, testimone della rampante ascesa borghese incurante di ogni morale che non sia quella dello sfruttamento e della sfida ai concorrenti – indistintamente a destra o a sinistra a seconda delle circostanze – ma anche un figura psicologica, che, al di là delle contingenze politiche, riassume in sé l’intera trigonometria della personalità aperta alle sfide più recondite tra eroismo e conformismo. Un eroe che ancora oggi permea della sua personalità tutto quello che potrebbe essere chiamato “moralismo individualistico”.