Vive in campagna da trentacinque anni. Anche perché restare fuori dalla confusione, per lei, «è un dovere morale, etico». Dice: «Se sei nella confusione potrai produrre solo confusione. Invece, io ci tengo a essere, come diceva Etty Hillesum, il cuore pensante della baracca». E per esserlo «non posso che astrarmi dal mondo contemporaneo che ti manipola in tutti i modi».
Dopo il successo di “Va‘ dove ti porta il cuore”, Susanna Tamaro ha scelto di abitare nella campagna di Orvieto, in Umbria. Con lei diversi animali. In “L’amore di un cane”, l’ultimo libro edito da Solferino, è di alcuni di loro che parla, i suoi «compagni di una vita» che insegnano l’amore incondizionato, la gratitudine, il mistero spirituale che sono le loro stesse esistenze.
Susanna Tamaro, perché ha deciso di scrivere dei cani che vivono con lei?
«I cani sono sempre stati i compagni della mia vita, almeno da quando ho potuto. Da bambina vivevo in città. Negli anni ’50-’60 non era normale avere un cane da compagnia. Appena sono arrivata in campagna mi sono rifatta del tempo perduto. I cani sono in qualche modo un mistero vivente accanto a noi. E il fatto che sia cambiato il nostro rapporto con loro, che non siano più considerati soltanto per mera utilità, ma siano degli esseri misteriosi che interagiscono con la nostra emotività, con la nostra affettività, ci deve far porre diverse domande. Il cane è animale di antica domesticazione. Ma abbiamo pensato, in termini anche un po’ pavloviani, che fosse una macchina che a ogni stimolo risponde. Invece, dopo che vivi per tanti anni con loro, ti rendi conto che hanno delle personalità, delle individualità, e che capiscono cose di noi che dovrebbero quasi imbarazzarci. Penso che in questi tempi così cupi il cane ci offra la memoria dell’innocenza e dell’amore. Perché il cane si dona e non ti chiede niente in cambio, non ti giudica. Ed è forse per questo che c’è una grande crescita di interesse verso di loro, perché vanno a riempire questo vuoto, il nostro bisogno di un amore pulito».
In apertura del libro riporta una frase di Ildegarda di Bingen, la grande mistica tedesca del XII secolo che sapeva curare ogni malattia con un’erba differente. E che dice: “Date all’uomo un cane e la sua anima sarà guarita”. Lo pensa anche lei?
«Assolutamente. I cani sono i grandi terapeuti dell’anima. In un mondo devastato dal potere finanziario, in cui tutto sta diventando sempre più oggetto, ci ricordano che esiste una resistenza affettiva che non è comprabile con niente. Puoi anche prendere un bel cane di razza, ma sarà tuo soltanto se saprai instaurare un rapporto di dialogo con lui, di comprensione. Io ho salvato tanti cani dal canile. Il cane che salvi è un cane che ti dimostrerà sempre riconoscenza e la riconoscenza è un sentimento molto complesso, non facile. La maggior parte degli esseri umani non sa dimostrare riconoscenza. Invece il cane è riconoscente. L’ho visto nel 2000. Ho voluto adottare il cane peggiore del canile, aveva le ossa rotte, un tumore, era malato. Si chiamava Bianchina. Appena arrivata a casa si è messa in una casetta nel giardino e per 48 ore è stata lì a guardare fuori. Pensava: forse sono morta e questo è il paradiso. Poi una volta che ha realizzato che quella era la nuova realtà della sua vita ha cominciato a uscire. Aveva 13-14 anni e, pur malata, è vissuta fino a 19 anni. Stava sempre vicino alla stufa. Era molto debole e ogni volta che rientravo in casa batteva la coda. La chiamavo il metronomo. Sapeva come dire grazie ogni volta che mi vedeva: grazie che mi hai dato questa vita».
Ha iniziato la sua strada di scrittrice con Illmitz. Poi tanti altri romanzi, il grande successo di “Va‘ dove ti porta il cuore”. Oggi il cuore è dai suoi animali che la porta? O dove?
«Sono una naturalista, un’entomologa. Ho una grande competenza sulla natura di cui non ho una visione sentimentale ma realistica. Tutti i miei studi sulla natura pratica, sulla vita degli insetti, mi portano a dire una cosa: il vivente è abitato da una grande intelligenza e questa intelligenza progredisce sempre. Siamo solo noi esseri umani purtroppo che tendiamo a retrocedere. Nell’evoluzione a un certo punto irrompe la bellezza. I dinosauri non si può dire che fossero belli, però andavano a sviluppare un mondo che era di bellezza, perché gli animali sono straordinariamente belli. Un ragno, ad esempio, è come una cattedrale gotica. Ma noi siamo ciechi verso la natura perché abbiamo una visione ideologica di essa e dunque non siamo in grado di vedere quello che veramente ci comunica. Dunque, il mio cuore va verso gli animali perché va verso il mistero spirituale della loro vita. Rappresentano il mistero spirituale della vita che è il mistero racchiuso nell’evoluzione».
Dopo aver rinunciato per anni ad avere un cane, scrive che la sua anima ne aveva bisogno. Come l’ha capito?
«Abitavo in città. Lavoravo. Stavo in un monolocale e sapevo che un cane avrebbe sofferto moltissimo in quelle condizioni. Avrei potuto prendere un cane ma sarebbe stata una crudeltà verso di lui. A un certo punto ho cominciato a sognare tutte le notti che suonavano al campanello di casa, aprivo la porta e c’era una scatola di cartone con dei cuccioli. Se sono abbandonati li devo prendere, mi dicevo. Di lì a pochi mesi, o forse dopo un anno, mi sono trasferita a vivere in campagna. E ho così potuto soddisfare questa esigenza primaria della mia anima».
Intorno alla metà del secolo scorso, scrive, molti cani venivano considerati solo in base alla loro utilità e potevano essere eliminati a proprio piacimento quando non servivano più. Non c’era alcuna sensibilità nei loro confronti e venivano trattati come qualcosa di non molto diverso da un oggetto. Eppure, ancora oggi in molti pensano che siano animali senz’anima e così per un certo cattolicesimo che coltiva l’idea perversa secondo cui l’amore che dai a un animale sarebbe un amore sprecato. Si è mai domandata perché, proprio all’interno della fede che vuole seguire Gesù, vi può essere una tale distorsione?
«È una cosa che mi colpisce e mi ferisce sempre, perché penso che nel mondo l’amore o c’è o non c’è. E anche l’anima o c’è o non c’è. Non ci sono terze ipotesi. Dunque, se il mondo è amore, anche i cani fanno parte di questa dimensione d’amore. Il cane risponde all’amore, e comunica qualcosa di misterioso che lo fa compartecipe di una dimensione dell’anima. I cani ti leggono nel cuore. Continuo a interrogarmi con meraviglia di come sia possibile, eppure hanno uno sguardo attraverso il quale ti leggono i pensieri. Non sono una sentimentale, conosco benissimo l’etologia. Ma dico che i cani capiscono tante cose di te, i tuoi stati d’animo, come stai, il momento che stai vivendo, se hai bisogno della loro vicinanza o meno. Capiscono tutto. E questo li pone nell’ombra del mistero. Penso che questo mondo che al contrario mette l’uomo al centro senza il creato sia di una povertà assoluta, sia la negazione del cristianesimo. Nel libro scrivo che se io arrivo nell’aldilà e scopro che il paradiso è asettico come una sala d’attesa di un dentista, cioè se non ci sono i miei cani, gli animali, le cose che ho amato, le piante che ho cresciuto… allora giro i tacchi e me ne vado. La totalità è la totalità. O c’è o non c’è».
Quanto è importante per lei non avere fretta?
«Per me è fondamentale. Faccio una vita quasi ottocentesca. Vivo in campagna da ormai trentacinque anni. Ho l’orto, il frutteto, le api. Produco tutto in casa, il vino, l’olio, le cose da mangiare. È un grande lavoro, anche pratico e molto faticoso perché la natura non aspetta: fai quella cosa ora oppure perdi il raccolto. È un grande sprone a lavorare sempre. Dopo il Covid ho anche smesso di guardare la televisione completamente. Penso che sia un dovere morale, etico, rimanere fuori dalla confusione di questi tempi. Perché se sei in questa confusione potrai produrre solo confusione. Invece io tengo a essere, come diceva Etty Hillesum, il cuore pensante della baracca. Voglio essere il cuore pensante e per essere il cuore pensante devi assolutamente astrarti dal mondo contemporaneo che ti manipola in tutti i modi. Le persone hanno bisogno di parole di verità, ma anche di sentire che la persona che le dice è una persona che le dice in piena consapevolezza. Trascorro molte ore studiando, lavorando, occupandomi dell’orto, facendo anche una vita sociale che a Roma non potrei avere. Quando vado in città resto sempre colpita dalla ferocia che cresce di giorno in giorno e di come dopo il Covid si sia alzato in modo esponenziale il livello di povertà e di disperazione. E ogni volta è veramente uno shock. In campagna, invece, è tutto diverso».
Lei sceglie i suoi cani nei canili. “Quello che alla fine rimane nel tuo cuore è il tuo cane”, scrive, come se fosse già scritto che doveva essere uno e non un altro. Crede che vi sia un destino già scritto in questi incontri oppure no? È lei che sceglie i cani o loro scelgono lei?
«A parte il primo cane, Tommasina, che mi ha scelto perché era stata abbandonata e decise lei di venire verso di me, tutti i cani li ho scelti al canile. Alcuni li ho salvati da situazioni estreme… cani che dovevano essere ammazzati, cani tenuti malissimo. Collaboro col canile della mia città. Molte volte si commette un errore. In tanti dicono: Non vado al canile perché sennò li prenderei tutti. No. È come se si va a una festa di amici, non è che ti innamori di tutti. Così accade nei canili. Occorre avere la pazienza di capire chi ti colpisce e la pazienza di demolire tutte le idee che avevi andando lì. È un innamoramento, un incontro di sguardi. Inoltre, è importante che nel canile non vi sia mai un “sentimentalismo della pena”. A volte ci sono cani terrorizzati, borderline, che è possibile gestire solo se si è un grande esperto. Io ho avuto due o tre cani di questo tipo. Però vivo in campagna e riesco a gestirli in qualche modo. In città, in appartamento, un cane come questi è molto difficile che si riesca a salvarlo. Dunque, occorre fidarsi di coloro che ti danno dei consigli. E occorre andare nel canile varie volte. Quando di sera torni a casa, chiudi gli occhi, e ti chiedi: quale cane mi è rimasto in mente? Uno sguardo verrà a fari visita e capirai così che quello è il tuo cane, anche se magari era l’opposto di quello che pensavi inizialmente di prendere».
Quando sceglie un cane gli cambia il nome, gli dà un nome nuovo. Non è una violenza questa? E se no, perché non lo è?
«I cani del canile hanno nomi solo burocratici. Sono nomi per le carte, ma loro non sanno assolutamente che quello è il loro nome. Il primo nome che hanno è quello che gli dai tu. La mia bretoncina che ho preso durante il Covid su Internet – è stata la prima volta che ho preso un cane su Internet - aveva già un nome perché aveva un padrone. E, dunque, ha mantenuto il suo nome. Ma quelli presi al canile non hanno un nome bensì solo una sigla. Il nome è molto difficile da dare. Io sono molto contraria ai nomi di umani dati ai i cani. Perché si fa confusione, anche se adesso va molto di moda. Quando cominci a capire la personalità di un cane, allora capisci piano piano il suo nome. E tante volte il nome si cambia due o tre volte nei primi giorni, fino a che non si comprende quale è il nome giusto».
Parliamo di Pongo, il cane “insipido” che nessuno voleva per la sua banalità e che lei invece ha preso con sé. Cosa le ha insegnato questo suo apparente anonimato?
«Una volta al canile ho trovato questo cane che era veramente il cane più banale del mondo. I canili sono pieni di cani così… Si chiamava Luigino, guardava per terra con le orecchie basse… Andai per due mesi finché non mi dissero: ma perché non prendi Luigino? E ancora: lo proponiamo a tutti ma tutti dicono che è caruccio ma troppo banale… L’ho preso io. Si è rivelato un cane meraviglioso, molto intelligente, sensibile, ubbidiente. Dunque, la banalità nascondeva in realtà un tesoro, un cane “da patente”, facile. E poi molto bisognoso di amore. Era stato sette anni in gabbia… dunque per lui il contatto fisico, la vicinanza, erano importanti. Non sapeva cos’era avere una famiglia. Non occorreva imporgli nulla. Un cane così si educa da solo quando tu gli dai gli stimoli giusti».
Con Tamaro vivono anche due asini
A proposito di cani scartati o messi da parte, voglio fare una piccola parentesi. Mi ha molto colpito che il suo romanzo “Va‘ dove ti porta il cuore” per un certo periodo di tempo non venne preso da nessun editore. Che cosa le ha insegnato quella stagione?
«Beh, innanzitutto il fatto che gli editori non capiscono molto di libri. Mi dissero: questo libro è proprio un fallimento, chiudilo in un cassetto e dimenticatelo perché sarà la tua rovina se lo pubblichi. Un altro editore mi disse: no, guarda, proprio un libro non riuscito. Un terzo disse: forse sotto pagamento potresti farlo riscrivere, e con il lavoro di un editor si potrebbe arrivare a qualcosa. Insomma, ho dovuto lottare parecchio per riuscire a pubblicarlo, ma poi ho avuto ragione a lottare. E questo accadde trent’anni fa. Oggi c’è ancora più confusione. Gli editori non sanno più cosa sia la letteratura, cosa sia un libro che resta. Grazie a “Va‘ dove ti porta il cuore” posso dire che i libri hanno un potere immenso, nonostante tutto. I libri camminano per il mondo, le loro gambe entrano nella vita delle persone, le accompagnano, e le cambiano. I libri di letteratura vera sono degli straordinari amici per la vita. I libri di consumo sono nobilissimi, certo, però sono libri di consumo. Temo che adesso, tra l’intelligenza artificiale e le serie tv, tutto quello che è letteratura verrà divorata. Oggi le serie tv assorbono quanto un libro di Ken Follet, dei grandi scrittori. E l’intelligenza artificiale è già in grado di fare dei libri di intrattenimento».
Quindi saranno sempre meno i libri di letteratura?
«Secondo me sì. Perché ormai c’è un’alterazione della percezione di cosa sia letteratura. Io ho la fortuna di avere debuttato con editori veri, che sapevano cos’era un libro e sapevano cosa era letteratura. Oggi io mi domando quanti libri belli finiranno nel nulla perché non c’è una persona in grado di capirli».
Alcuni dicono che “Va‘ dove ti porta il cuore” è scritto in modo troppo semplice. Perché è una colpa?
«La complessità in letteratura non è mai intelligenza ma confusione mentale. Scrivere semplice è la cosa più difficile in assoluto. Tolstòj scriveva semplice. Dostoevskij scriveva semplice. Dickens scriveva semplice. I classici sono tutti scritti semplicemente. Ma per arrivare a quella semplicità c’è un lavoro pazzesco da fare, perché devi togliere tutto il tuo ego, tutto quello che vorresti dire tu. Devi fare una pulizia totale e arrivare all’essenza».
Lei quando scrive toglie?
«Scrivo a mano da tanti anni. Scrivo così come si legge. Non faccio nessuna modifica, perché tolgo già prima nella mia testa. Il lavoro è prima nella testa».
I cani, ha scritto, aiutano a socializzare. Quando si esce con un cane s’incontrano tante altre persone. Quale incontro si ricorda più di altri?
«Socializzo quando vado in città. Mi capita a Trieste soprattutto. Conosco tutte le persone del quartiere. Due volte mi è capitato di vedere un cane per strada, salutarlo, e dopo accorgermi che chi teneva il guinzaglio era una persona famosa… I cani sono importantissimi per le persone anziane, sono delle terapie straordinarie. Una persona vedova che ha un cane cosa farebbe senza? Starebbe chiusa in casa a guardare la televisione. Invece col cane è costretta a uscire, andare ai giardinetti, all’area giochi, parlare. Dovrebbero favorire l’adozione di cani da parte delle persone anziane, proprio per dare agli anziani una cura alla solitudine. Il Comune di Pordenone faceva questo. Dava alle persone anziane un bonus economico per l’adozione di un cane nel canile. Perché il cane è un aiuto sociale per una persona anziana o per una persona malata».
Un giorno ha simulato un annegamento e l’unico che è venuto a salvarla è stato Ciccio, il cane più piccolo. Troppo spesso si giudica chi abbiamo accanto senza conoscere di cosa è davvero capace?
«Sì, Ciccio, aveva una grande anima. Era un cane intrepido, non bellissimo, pesava cinque chili. Ma non temeva nulla… Invece adesso vediamo in giro tanti cani feroci. Nei canili i cani da combattimento non li danno a nessuno. Sono cani rischiosi, non li può adottare nessuno. Mi domando se chi li prende non abbia semplicemente bisogno di loro per offrire un’immagine forte di sé. Forse perché in verità non sono così forti come vogliono mostrare? L’apparenza inganna, comunque. Certi cani piccoli non hanno paura di niente».
Fare entrare un cane nella propria vita significa accettare l’inevitabile dolore per la sua morte. Crede che dopo questa vita potrà rivedere i suoi cani oppure no? E cosa pensa della morte?
«Penso di sì. Penso che se la vita eterna è eterna in tutto quello che hai amato. Dunque, penso che la vita si rigeneri nella dimensione dell’eternità, in cui tutto quello che hai amato a tutti i livelli lo ritroverai nell’aldilà. C’è un’eternità in cui l’anima si ricongiunge alle persone, ai genitori, agli antenati. Nella tradizione ebraica i cani vedono l’angelo della morte. Mi è capitato due volte di trovarmi vicino a una persona che stava morendo in compagnia di un cane e di vedere un comportamento che non avevo mai visto. Secondo una tradizione ebraica il cane può di vedere l’angelo della morte prima che la morte arrivi. I cani vedono anche quello che noi non vediamo perché sono degli innocenti, sono dei puri di cuore, e dunque vedono. Penso che la vita eterna esista e mi dispiace che se ne parli così poco, perché ormai è una cosa di cui si sono tutti dimenticati. Invece senza vita eterna gli esseri umani sono disperati, perché nel nostra cuore c’è questa aspirazione profonda anche se ormai sepolta sotto tonnellate di chiacchiere e confusione».
Roberta Mazzone firma delle bellissime illustrazioni al libro, tanti disegni dei suoi cani fra le pagine. Quale l’ha emozionata di più?
«Sicuramente Tobia, perché è stato il mio grande amore. È morto un anno fa, Era un cane straordinario. Lo presi per regalarlo a un’amica di novant’anni. Era una religiosa che viveva in un eremo sulle montagne. Le dissi: cosa vuoi per i novant’anni? Vorrei un cane, mi rispose, ho sempre desiderato averne uno. Ma lo vuoi cucciolo? Sì, sì, lo voglio cucciolo! Così le abbiamo portato un cucciolo. Però le altre religiose erano contrarie. E così ho dovuto riportarlo al canile con mio grande dolore. L’ho lasciato lì. Stava in gabbia. Mentre mi allontanavo mi guardava come a voler dire: Mi hai tradito. Mi sono detta: se in tre settimane non lo prende nessuno lo prenderò io. E così è stato. È stato il mio grande compagno delle passeggiate in montagna. Adorava la montagna, la neve. Una volta si è fermato sotto le Tre Cime di Lavaredo e ha guardato intorno a sé. C’era una luce meravigliosa. Guardava, ed era chiaro che stava contemplando. Stava contemplando la bellezza».
Un’ultima domanda è una curiosità: chi è Susanna Tamaro? Perché le qualifiche si sono sprecate? Cattolica di sinistra? Di destra?
«Sono una persona estremamente libera. Questa è la mia vera definizione. E comunque una persona che ha sempre seguito una via interiore molto forte di ricerca e domanda di una via spirituale. Sono una persona che vive una dimensione di libertà spirituale. Penso che il cristianesimo sia la più alta forma di libertà spirituale. Purtroppo, questa dimensione non arriva alla maggior parte delle persone, perché purtroppo il cristianesimo, il cattolicesimo, è diventato una specie di moralismo di basso livello. Ciò fa un grande danno alle persone che gli si avvicinano».
Due cani di Tamaro