È da ormai una dozzina d’anni che Antonio Tabucchi ci ha lasciati. E lasciando noi – i suoi lettori, i suoi amici – ha lasciato anche un tremendo vuoto: quello di una poetica assai ardua da raccogliere e tramandare.
Lo scrivevo già nella prefazione a un nostro libro-intervista del 2017, La vita imperfetta, edito da Aliberti, ricordando che «si tratta di un autore il cui lascito, la cui eredità e il cui portato di indefinibilità essenziale rischia di diventare negli anni altrettanto importante di quello di Pessoa. Ma il cui contributo di originalità rischia, a sua volta, di non raccogliere che indegni eredi».
In effetti trovarsi di fronte all’opera di Tabucchi equivale in un certo senso a non trovarsi da nessuna parte in particolare. O per meglio dire, a ritrovarsi soltanto nel territorio friabile e indefinibile dell’ulteriorità, la cui indagine difficilmente può raccogliere adepti altro che in chi voglia, rischiando, azzardarsi «pessoano» o «tabucchiano».
Rimarcavo a tal proposito in quella Nota introduttiva: «Tabucchi è uno dei pochi autori che il Novecento ha avuto la volontà e la buona grazia di non lasciarlo intatto. Non tanto perché si sia posto contro il Novecento – come è accaduto a Rimbaud, ad Artaud e a quegli addolorati maudits in cui Tabucchi non si è mai riconosciuto che per sottrazione – ma perché si è posto dietro il Novecento, oltre quella linea d’ombra, quel margine di immediata riconoscibilità che è il suo aspetto rassicurante e la sua buona coscienza. Tramando coi Sogni, con il Doppio, con l’Altro e il Possibile ha portato a estremo compimento quello che il Novecento esteriore aveva solo abbozzato: una poetica dell’ulteriore. O per così dire, una poetica dell’interiorità dell’ulteriorità».
Ecco dunque in che senso rievocare una «poetica» quasi inimitabile, non fosse perché espressasi come poetica «del compimento», è così decisivo. Ed ecco perché la sua ripresa, o persino la sua imitazione, la sua approssimazione in questa o quella forma di «tabucchismo», è tanto complicata. Perché ci si muove dentro un margine di ulteriorità oltre quale è verosimile non si presentino altre linee di confine.
Pure, incalzato dal sottoscritto affinché definisse in quale forma, in quali termini, potesse definirsi la sua poetica, Tabucchi, scomodando la chimica, ebbe a quel tempo cura di spiegarmi: «Un libro è sempre una realtà parallela. La letteratura è sempre un “di più” rispetto a ciò che c’è, e in quanto tale è un’altra realtà. Essa aggiunge un qualcosa che prima non esisteva. In fondo, la Tavola degli elementi chimici è limitata: la letteratura aggiunge un qualcosa che in natura non esisteva, come se fosse un elemento chimico in più. La letteratura dunque inventa. Essa inventa dal nulla una realtà che prima non esisteva. La letteratura è dunque creativa, perché inventa».
E oltre a inventare, aggiunge l’autore di Sostiene Pereira, scopre: cioè rivela elementi di consapevolezza del mondo che fino a quel momento erano sconosciuti all’essere umano. Per esempio il cosiddetto «bovarismo», quel sentimento di «amore per l’amore» che molti di noi hanno avvertito dentro di sé ma che, prima di Flaubert, era del tutto oscuro a chi non aveva ancora letto Madame Bovary.
Allora la questione del «perché si scrive» diventa per così dire imprescindibile.
Antonio Tabucchi (Archivi RSI)
Contenuto audio
Intervista, 2010 (1/2), a cura di Marco Alloni
RSI Cultura 18.05.2010, 02:00
Intervista, 2010 (2/2), a cura di Marco Alloni
RSI Cultura 19.05.2010, 02:00
Eppure Tabucchi, anche in questa circostanza, non cede a una spiegazione «scientifica», ma di nuovo e soltanto alla sua «poetica dell’ulteriorità». E di fronte alla più inflazionata delle domande, perché si scrive?, risponde: «Le risposte possibili sono tutte plausibili senza che nessuna davvero lo sia. Si scrive perché si ha paura della morte? È possibile. O non si scrive piuttosto perché si ha paura di vivere? Anche questo è possibile. Si scrive perché si ha nostalgia dell’infanzia? Perché il tempo è passato troppo in fretta? Perché il tempo sta passando troppo in fretta e vorremmo fermarlo? Si scrive per rimpianto, perché avremmo voluto fare una certa cosa e non l’abbiamo fatta? Si scrive per rimorso, perché non avremmo dovuto fare quella certa cosa e invece l’abbiamo fatta? Si scrive perché si è qui ma si vorrebbe essere là? Si scrive perché si è andati là ma dopotutto era meglio se restavamo qui? Si scrive perché sarebbe davvero bello poter essere qui dove siamo e allo stesso tempo essere anche là dove ci trovavamo prima? (...) O non si scriverà piuttosto per gioco, come pretendeva l’avanguardia dell’avantieri in Italia e anche altrove, cioè la letteratura intesa come parole crociate che è tanto utile per ammazzare il tempo (...)»
E l’elenco continua, potremmo dire all’infinito. Ma proprio in questo è il senso recondito della «poetica dell’ulteriorità» di Tabucchi: laddove si vuole approssimare una risposta alle ragioni della vita e della letteratura, bisogna approssimarci all’infinito, all’infinita serie del possibile e del nascosto, dell’ignoto e dell’ulteriore. Appunto, non ci sono risposte finali, alla vita e alla scrittura. Tranne questa, che lascia senza fiato e senza eredi: che alla vita e alla scrittura non esistono risposte finali.
Sostiene Antonio Tabucchi...
RSI Cultura 24.08.2020, 11:00