Letteratura

Tarchetti e “Fosca”

La malattia (e la bruttezza) come metafora

  • 17.07.2020, 00:00
  • 31.08.2023, 10:57
Igino Ugo Tarchetti
Di: Mattia Mantovani 

Igino Ugo Tarchetti, come del resto molti suoi colleghi scapigliati (ma forse lui più degli altri), ha commesso soltanto un errore. Gravissimo, però, si vorrebbe quasi dire fatale: è nato -e soprattutto morto- nel secolo sbagliato, il secolo delle carrozze a cavalli, delle certezze romanzesche (il “mot juste” flaubertiano), del positivismo e delle “magnifiche sorti e progressive”. La sua biografia, infatti, dice che è nato a San Salvatore Monferrato, in provincia di Alessandria, nel 1839, ed è morto di tifo a soli trent’anni, a Milano, nel 1869. Partendo da questi estremi biografici, si potrebbe immaginare quello che un grande scrittore nonché virtuoso della lingua tedesca come Gregor von Rezzori aveva simpaticamente definito “Epochenverschleppung”, “differimento epocale”. Se spostiamo in avanti di un secolo sia la nascita che la morte (però anticipandola di tre anni, per permettergli di entrare nel cosiddetto “Club del 27”), dislocando in Gran Bretagna o negli Stati Uniti il luogo di nascita, modificando la causa del decesso da “tifo” a “mix letale di droghe, alcol e farmaci” e mutando infine l’ambito espressivo, otteniamo il ritratto di uno dei non pochi rockettari che sono venuti esattamente un secolo dopo Tarchetti e tutto sommato ne hanno ripercorso le tracce e rivissuto il disagio.

Ma con una sostanziale differenza: i vari Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Kurt Cobain ed Amy Winehouse, solo per citarne alcuni, sono diventati delle vere e proprie icone, mentre il povero Igino (Ugo è un’aggiunta posteriore, in omaggio all’amatissimo Foscolo) è rimasto una figura di secondo piano della storia letteraria, con le antologie che gli dedicano al massimo uno sparuto paragrafo nel capitolo sulla Scapigliatura. E’ altrettanto vero che il cachettico Tarchetti, col suo fisico non propriamente da palestrato, la tendenza a quello stato d’animo per il quale Ennio Flaiano coniò la splendida definizione “malinconia canina” (tradotto in soldoni: veder nero dappertutto, sempre e comunque), e non da ultimo con le sue fantasie funeree, al limite della necrofilia, ha fatto poco o nulla per attrarre le anime tutte d’un pezzo e gli intelletti di sana e robusta costituzione (ammesso che esistano).

Nella sua poesia più celebre, che si intitola “Memento”, c’è ad esempio la descrizione di un amplesso ad opera di una mente -diciamo così- lievemente disturbata: l’amante, sotto il «labbro profumato» dell’amata, ha l’impressione di avvertire «il bianco teschio», sotto il «corpo vezzoso» pensa di stringere lo «scheletro nascoso», e da ultimo «dovunque o tocchi, o baci, o la man poso / sento sporger le fredde ossa di morto». Come dicono le parole di un altro esponente della Scapigliatura, Arrigo Boito, «non trovando il Bello, ci abbranchiamo all’Orrendo». Sia pure, ma est modus in rebus…

Tuttavia la malattia e la deformità, se e quando si risolvono in una compiuta figurazione artistica, come nella “Montagna incantata” di Thomas Mann o ne “Il male oscuro” di Giuseppe Berto, possono diventare un grande tema letterario e un’immagine della condizione umana. Perché la discesa negli inferi della malattia, reale e metaforica, diventa una discesa nel gorgo dei sentimenti, del rimosso, delle pulsioni inesprimibili e incontrollabili. Tarchetti è riuscito soltanto una volta a stilizzare la malattia in metafora, nei mesi che (forse non a caso) ne hanno preceduto la morte.

Però ha creato un capolavoro, che ha da poco compiuto il secolo e mezzo di vita e continua a provocare un certo turbamento, perché si addentra in territori assolutamente impervi o comunque poco esplorati. Il capolavoro in questione, di un genere che si situa a mezza via tra il racconto lungo e il romanzo breve, si intitola “Fosca” e in occasione dell’anniversario dei 150 anni dalla prima pubblicazione è tornato in varie edizioni e per la prima volta nella collana economica Feltrinelli. Nel 1981 Ettore Scola ne trasse un film davvero straordinario, “Passione d’amore”, con Bernard Giraudeau, Jean-Louis Trintignant, Massimo Girotti e una prodigiosa Valeria D’Obici nel difficilissimo ruolo di Fosca.

“Fosca” è scritto in uno stile spesso involuto, con troppi (e troppo lunghi) inserti teorici, e inoltre si nota la mancanza di un lavoro di lima o comunque di revisione (Tarchetti morì prima di scrivere l’ultimo capitolo, e l’opera fu portata a termine dall’amico Salvatore Farina). Eppure è un grande capolavoro, perché riscrive e anzi riposiziona in maniera del tutto nuova l’antica dialettica di amore e morte, bello e brutto, attrazione e repulsione. Pare che la vicenda da cui Tarchetti prese spunto per il libro si sia svolta nella zona di Parma, ma nella finzione narrativa è ambientata nell’Alto Piemonte, terra di brume e di nebbie, e per giunta in pieno autunno. Quel che si suol definire uno scenario perfetto.

Gravemente malata di tubercolosi, affetta da quella che ai tempi si cominciava a definire “isteria”, e soprattutto di una bruttezza al limite della deformità, la giovane Fosca si innamora perdutamente del capitano di cavalleria Giorgio Bacchetti (il tipico “bel tenebroso”, oggi immaginabile come tronista), che a Milano ha una relazione adulterina (lei è sposata e ha una figlia) con una donna bellissima, Clara, e inizialmente rifiuta con disgusto le profferte. Ma il disgusto, come suggerisce il titolo del film di Scola, si trasforma ineluttabilmente in una “passione d’amore” che infine deflagra in un’autentica e divorante ossessione. Dopo una brevissima fase di stendhaliano amour-passion, infatti, il rapporto tra Giorgio e Fosca assume connotazioni quasi vampiresche, con i due amanti che si infettano vicendevolmente coi bacilli del malessere e della pulsione di morte. Muoiono entrambi, va da sé, ma di una morte differente. Una morte biologica, nel caso di Fosca, e una morte civile, nel caso di Giorgio. Ma la causa è la stessa: il cuore di tenebra poi magistralmente evocato da Conrad, lo strato melmoso e fanghiglioso che sta appena sotto le finzioni e le ipocrisie della civiltà. «Il Bello sta nell’Orrido, / nella Beltà è l’Orror!», aveva scritto un altro scapigliato, Giulio Pinchetti, morto suicida nel 1870 a 26 anni. Figli (o nipoti), come siamo, di certezze completamente opposte a quelle del positivismo, e privati ormai da tempo del “mot juste”, ci viene quasi da pensare che non fosse soltanto un programma poetico.

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