Se è vero, come diceva T.S. Eliot in un penetrante e imprescindibile studio sulla “Divina Commedia”, che perfino Dante non è stato sempre Dante, si può affermare senza tema di smentita che anche i grandi e i grandissimi possono incorrere in errori, svagatezze e dimenticanze, oppure articolare giudizi errati sull’opera altrui. Uno stranissimo e tutto sommato inspiegabile caso di dimenticanza, ad esempio, è quello che riguarda Friedrich Nietzsche e uno dei massimi narratori del secondo Ottocento tedesco, Theodor Storm, autore di novelle di rara perfezione stilistica e straordinaria penetrazione psicologica.
Il passo in questione è contenuto nel celebre aforisma 109 della seconda parte di “Umano, troppo umano”, databile pressappoco al 1879, quando il teorico dell’“oltreuomo” enumera quelli che considera gli autentici e imprescindibili «tesori della prosa tedesca, che meritano di essere continuamente letti e riletti». Il novero comprende tutte le opere di Goethe, le “Conversazioni con Eckermann” dello stesso Goethe («il miglior libro tedesco che ci sia»), gli aforismi di Georg Christoph Lichtenberg, il primo libro dell’autobiografia di Heinrich Jung-Stilling, il monumentale romanzo “La tarda estate” dell’austriaco Adalbert Stifter e il ciclo narrativo “La gente di Seldwyla” dello svizzero Gottfried Keller. «E ciò per il momento è tutto», sentenzia Nietzsche alla fine dell’aforisma. Si nota subito che l’elenco è di altissimo livello e comprende davvero i “tesori della prosa tedesca”, ma si nota anche che manca qualcosa (“Enrico il Verde” di Gottfried Keller, meraviglioso romanzo molto goethiano ma anche molto nietzscheano, che in seguito diventerà il “livre de chevet” di Thomas Mann) e soprattutto manca qualcuno. Questo qualcuno è precisamente Theodor Storm.
Nietzsche, che sicuramente conosceva le opere di Storm, apprezzava in particolare “La tarda estate” di Stifter, non senza validi motivi, perché l’idea del “sanftes Gesetz” (la “mite legge”) espressa nel romanzo, vale a dire l’adesione al fluire indifferente della vita, corrispondeva totalmente alla sua concezione di un’esistenza vissuta al di là di tutte le etichette, in un presente assoluto e venato di incanto, “nobile solitudine” e temprata malinconia. A questo proposito, è particolarmente celebre l’immagine, contenuta sempre in “Umano, troppo umano”, dei trichechi assopiti tra gli scogli e lambiti dalle onde del mare.
E’ quindi molto strano che dell’elenco non faccia parte Storm, giurista per professione e narratore e poeta per diletto e vocazione, nato nel 1817 a Husum nello Schleswig-Holstein (la “grigia città sul mare”, alla quale dedicò una celebre lirica), che dall’estremo nord della Germania ha regalato alla “prosa tedesca” numerosi gioielli che probabilmente non possono competere con Goethe, ma non hanno nulla da invidiare a Stifter e Keller, e soprattutto esprimono l’idea molto nietzscheana di una vita che viene accettata nei suoi grandi momenti e nella sua avvilente e dolorosa insignificanza: forse non ancora al di là del bene e del male, ma quasi.
Dall’esordio con “Marthe e la pendola” nel 1847 fino al tardo e possente “L’uomo dal cavallo bianco”, pubblicato nell’anno della morte, il 1888, passando per altri capolavori quali “Immensee” (che per opinione condivisa viene considerata la novella per eccellenza della letteratura tedesca dell’Ottocento, insieme a “Mozart in viaggio verso Praga” di Eduard Mörike), “Viola tricolor”, “La confessione” e “Il curatore Carsten”, la novellistica di Storm si presenta come un insieme molto coerente, nel quale si fondono epica e dramma. Lo stesso Storm, del resto, aveva definito la novella come «la sorella del dramma e la forma più rigorosa di poesia in prosa». In questo senso, Storm è molto vicino al suo amico nonché fratello spirituale Gottfried Keller, col quale intrattenne non a caso un fittissimo rapporto epistolare, che si può leggere per entrambi gli autori come una sorta di manifesto poetico. E’ proprio a Keller, tra l’altro, che si deve la più bella definizione dell’arte di Storm: «Il prodotto in filigrana d’argento di un artigiano e orafo silenzioso».
Tuttavia, a differenza di Stifter e Keller, Storm è piuttosto lontano dal naturalismo e adotta molto spesso un procedimento che consiste nel rielaborare e reinventare narrativamente i casi giudiziari attinti dall’esperienza professionale, situandoli in una dimensione più ampia che li rende unici ed esemplari, quasi uno specchio della condizione umana. Anche per questo motivo, Storm è stato inconsapevolmente “nietzscheano”, eppure Nietzsche non se n’è accorto. Dove non è arrivato Nietzsche, possiamo però arrivare noi “venuti dopo”. Anzi, forse è proprio adesso, con la giusta distanza storica e critica e in un contesto culturale profondamente diverso, che si può pienamente apprezzare il tratto nietzscheano e quindi attuale/inattuale della narrativa di Storm.
Lo ha capito un lettore di spicco come György Lukács, che in un passo de “L’anima e le forme” ha espresso in questi termini il senso più profondo della sua verità umana e poetica: «La forza di Storm è la forza della rinuncia e della rassegnazione, è la forza della vecchia borghesia di fronte alla nuova vita. E’ in questo che Storm, suo malgrado, si rivela moderno. Una cosa si allontana per sempre e c’è un uomo che si ferma a seguirla con lo sguardo finché scompare, eppure la sua vita continua ed egli non si abbandona per questo. Ma il ricordo vive in lui in eterno: esisteva qualcosa che poi è scomparso, potrebbe esistere ancora chissà quando». Non siamo molto lontani dal “Dauer im Wechsel” di Goethe, l’idea della “natura vivente” e della “durata nel mutamento”, ma nemmeno dall’“eterno ritorno” di Nietzsche e dalla dialettica di passionalità e fermezza, sentimento e virile ritegno.
Scrittore tipicamente ottocentesco nel modo di strutturare la narrazione, ma non privo di tratti già novecenteschi in alcune fratture ritmiche e nella capacità di restituire la frammentazione della psicologia dei personaggi, Theodor Storm ha trovato nella novella la sua dimensione congeniale. Le sue pagine, infatti, che scorrono dimesse e “leggere” (anche in questo caso, nel senso nobile e nietzscheano del termine), solo attraversate da un lontano sentore di malinconia e da screziature di disincanto, non avrebbero probabilmente retto la misura lunga e articolata del romanzo, perfetta invece per il suo quasi concittadino e amico Theodor Fontane, che proprio sulle spiagge del Mare del Nord tanto amate da Storm ha ambientato un capolavoro come “Effi Briest”, che con ogni probabilità è invece il romanzo tedesco per eccellenza del secondo Ottocento.
Il novelliere Storm non si è calato negli abissi talora crudamente esplorati dal romanziere Fontane, limitandosi a schizzarli e ad evocarli. Ma questo limite, se così lo si può definire, è anche la sua grandezza, ad ogni modo la specifica grandezza della sua novellistica, che ha davvero pochi pari. Lo si nota leggendo in particolare la straordinaria “Immensee”, storia di un amore infelice e sommerso dalla piena dei ricordi, ma anche la bellissima “Viola tricolor”, nostalgica rievocazione di un tempo perduto e forse ritrovato troppo tardi, e infine “L’uomo dal cavallo bianco”, il suo testamento umano e letterario non solo per motivi cronologici (Storm è morto poche settimane dopo la sua pubblicazione su rivista), ma anche perché riassume tutto il suo mondo poetico e si presenta come un’estrema variazione sui temi che lo sostanziano: il ricordo, come diceva il suo grande modello letterario Jean Paul, quale «unico paradiso dal quale nessuno ci può scacciare», ma anche l’idea o la sensazione di un idillio perduto per sempre, la solitudine, la fuga del tempo, l’ineluttabilità del destino, la dolorosa scissione tra l’io e la realtà, tra le istanze che fondano la vita ma insieme la irrigidiscono e quelle che la liberano ma insieme la dissolvono.
Un tema, quest’ultimo, che verrà ampiamente svolto nei decenni successivi da Thomas Mann, il cui “Tonio Kröger”, solo per citare un esempio, sarebbe impensabile senza il modello costituito da Storm, anche in termini di ambientazione e più in generale di “Stimmung”, di atmosfera. Non deve quindi stupire che lo stesso Mann, a differenza di Nietzsche, avesse capito la fondamentale importanza di Storm e in un lungo saggio l’avesse espressa in maniera lapidaria: «Da allora, nella nostra letteratura, l’aria è stata cambiata più volte, perfino violentemente, ci sono state rivoluzioni di ogni genere, che hanno consegnato molte cose all’oblio. Ma Storm è stato e rimane un maestro. Anzi, il maestro».
Lontanissimo e insieme vicinissimo, proveniente da un Nord solo all’apparenza remoto (come aveva intuito perfettamente il suo amico zurighese Gottfried Keller), Theodor Storm ha espresso in termini di altissima poesia, ma con la concretezza di una prosa levigata e cesellata, rigorosamente costretta nella misura della novella, l’irrisolvibile dissidio di fondo tra la Vita e la vita (tra l’anima e le forme, si potrebbe forse dire col già ricordato Lukács) e la perdita della dimensione verticale dell’esistenza.
Ma nelle sue pagine, insieme alla constatazione della sconfitta e dello scacco, si può anche leggere l’invito a vivere la sconfitta e lo scacco come una dimensione “umana, troppo umana”, che peraltro è l’unica concessa nel breve tempo del vivere e dell’esistere. In questo, ma non solo in questo, Storm può essere un buon compagno di strada in tempi di incertezza e crepuscolo. Come dice il giovane protagonista al termine del racconto “La confessione”, con parole che anche la Effi Briest di Fontane (magistralmente portata sullo schermo da Fassbinder), magari osservando il Mare del Nord da qualche duna sabbiosa, avrebbe potuto pronunciare: «A volte, ma solo per brevi momenti, ho quasi l’impressione che davanti ai miei occhi si sollevi una cupa cortina. Allora vedo la vita allargarsi ai miei piedi, come un paesaggio magnifico, ma sento che non vi posso scendere».
Gottfried Keller nell'immaginario svizzero
Attualità culturale 19.07.2019, 12:15
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