Nipotino di Thomas Bernhard oppure di Samuel Beckett? Narratore di razza oppure scaltro imitatore della grandezza altrui? E infine: ma è stato davvero “uno dei più grandi autori della sua generazione”, come recitano le fascette editoriali che accompagnano le ristampe e le pubblicazioni postume di alcune sue opere? Come rispondere? Nel caso di Vitaliano Trevisan -morto suicida a 61 anni, il 7 gennaio 2022- si può prendere a prestito la celeberrima frase dello scrivano Bartleby di Herman Melville e limitarsi a un lapidario “preferisco di no”. Che forse, in quanto non-risposta, è l’unica risposta possibile a domande e sollecitazioni di questo genere.
Ammesso, tra l’altro (e non concesso), che sia necessario porsi una simile domanda, perché l’eredità più autentica del sensibilissimo e sfortunato scrittore vicentino va cercata altrove, tra le pieghe del suo stile, nel demone del disagio mentale, nella dipendenza dagli psicofarmaci, in un carattere oggettivamente non facile e nel suo problematico e conflittuale rapporto con la “realtà”. Sicuramente non nel suo appartenere o meno a una non meglio definibile “generazione”.
Il narratore Trevisan (ma non bisogna dimenticare le sue prove come attore, soprattutto in “Primo amore” di Matteo Garrone, nel 2004), almeno agli esordi è stato un imitatore della prosa di Thomas Bernhard, che insieme a Beckett ha costituito il suo dichiarato autore di riferimento, ma i suoi tre romanzi “bernhardiani” (“Un mondo meraviglioso”, “I quindicimila passi” e “Il ponte”, pubblicati tra il 2002 e il 2007) meritano di essere letti e apprezzati a prescindere da ogni possibile filiazione.
Lo stesso discorso vale per gli altri testi narrativi, “Standards” e “Shorts”, e le incursioni nella scrittura teatrale (soprattutto i “Due monologhi”, “Una notte in Tunisia”, “Il lavoro rende liberi” e il cosiddetto “Kammerspiel” “Il deliro del particolare”), dove il modello rappresentato da Beckett -ma ne “Il delirio del particolare” il modello dichiarato è il teatro da camera dell’ultimo Strindberg, in particolare “Sonata di spettri”- è declinato in virtù di una sensibilità che ricrea il modello stesso e gli conferisce una forma almeno parzialmente nuova, al punto che si può parlare di un Beckett rivisto da Trevisan, così come si può e si deve parlare di un Bernhard ricreato da Trevisan. Thomas Bernhard, nello specifico, che da questo punto di vista è un autore per così dire piuttosto “pericoloso”, lo hanno imitato in molti, ma nessuno lo ha interiorizzato e conseguentemente restituito sul piano umano e stilistico come Trevisan, almeno in ambito italiano.
E’ comunque vero che la scrittura di Trevisan si è fatta del tutto autonoma quando la presenza dei numi tutelari Bernhard e Beckett si è spostata dallo stile ai contenuti ed è diventata quasi un aspetto naturale e implicito del dettato, soprattutto nel lungo saggio “Tristissimi giardini”, del 2010, che rimane una delle più lucide e spietate analisi della speculazione edilizia che ha trasformato il paesaggio italiano in un immenso e indifferenziato “non luogo”, e nella monumentale autobiografia “Works”, pubblicata nel 2016, nella quale l’autore si è raccontato attraverso tutti i lavori (portiere di notte, muratore, lattoniere e impiegato in una fabbrica di mobili nel vicentino, gelataio stagionale in Germania e molto altro ancora) che ha svolto dal 1976 al 2002, prima di dedicarsi interamente alla scrittura. Ma la scrittura, nel suo caso, più che una reinvenzione del materiale autobiografico e quindi una possibile terapia, si è configurata fin da subito come uno scavo viscerale e ha provocato un fatale aggravamento del disagio di esistere.
Lo stesso Trevisan, con una raggelante capacità di autoanalisi, lo ha spiegato nell’ultimo capitolo di “Works”, un testo inedito pubblicato in appendice alla nuova edizione uscita postuma insieme all’altro inedito “Black Tulips” (un insieme di frammenti sparsi di un’opera appena abbozzata, con l’idea di un viaggio nell’Africa Nera quale moderno cuore di tenebra dell’Occidente sazio e disperato). L’ampio capitolo conclusivo, che peraltro è narrativamente autonomo, si intitola “Dove tutto ebbe inizio” e riprende la suggestione bernhardiana del “Gehen”, il “camminare” come principio poetologico, già svolta ne “I quindicimila passi” ma qui portata alle estreme conseguenze.
L’io narrante, per sottrarsi all’insonnia che lo tormenta, intraprende una lunga passeggiata notturna e comincia a riflettere sulla propria vita in quella “periferia diffusa” (l’espressione, molto indovinata, è un’invenzione di Trevisan ed è perfettamente esplicitata in “Tristissimi giardini”) che coincide non solo col microcosmo claustrofobico della città di Vicenza, della sua provincia (la natia Sandrigo, ma anche Cavazzale, Crespadoro, la Riviera Berica, quasi coordinate di una personalissima geografia quotidiana dell’orrore e del male di vivere) e del famoso -o piuttosto famigerato- “Nord-Est” come categoria dello spirito, ma anche col macrocosmo costituito dall’Italietta buffonesca, caciarona, macchiettistica, mandolinara e in definitiva eternamente tentata dal taumaturgo e dall’uomo forte, come sosteneva mezzo secolo fa il suo conterraneo Giuseppe Berto (un altro dei suoi punti di riferimento, insieme ai compaesani Guido Piovene e Goffredo Parise: soprattutto il Parise dei “Sillabari”, oggetto di un’originalissima rilettura).
Recitiamo sempre, saggio è soltanto colui che lo sa. E poi bisogna chiamare le cose col loro nome, dice un personaggio di un testo teatrale di Bernhard, ma per farlo bisogna avere coraggio, perché quasi sempre è un nome che fa ribrezzo. Il camminatore notturno di Trevisan individua nella “periferia diffusa” la cifra simbolica dell’intera condizione umana, che viene descritta senza inutili perifrasi: «una situazione di merda senza via d’uscita», dove «l’unica possibile via d’uscita è prendere in mano la situazione di merda e stringere il nodo subito, senza por tempo in mezzo». L’io-narrante, a dire il vero, nutre ancora una residua speranza: «non fare assolutamente nulla» e attendere, come l’ultimo Baudelaire di “Povero Belgio”, che la natura si riappropri di tutto quanto le è stato sottratto dalla civiltà e dal cosiddetto progresso, di modo che «potremo riflettere sulla nostra storia, sul concetto di lavoro da cui tutto ha avuto inizio, sulla nostra identità e tutte le altre cazzate politico-culturali che dovrei dire per chiudere bene il discorso».
Un’attesa inutile, almeno per Trevisan, che ha scelto un’altra maniera per “chiudere il discorso”: «Il mio è un gesto volontario», ha scritto nel suo biglietto d’addio, «sono stanco e non ne posso più, nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla». Verrà un tempo, forse non vicinissimo, nel quale si capirà che Vitaliano Trevisan non è stato soltanto “uno dei più grandi autori della sua generazione”. Perché è stato anche -cosa ben più importante- un osservatore clinico, che si è calato con ruvida incisività negli abissi più oscuri di una certa mentalità italiana, soprattutto quella che ha sovrapposto e continua colpevolmente a sovrapporre le vuote e vaporose idealità e il basso tornaconto personale.
Per capire l’Italia di questo inglorioso scorcio iniziale del nuovo secolo basta insomma aprire a caso una delle sue opere, ricolme di verità talmente amare da risultare quasi inconfessabili (il monologo finale di “Una notte in Tunisia”, solo per citare un esempio, andrebbe mandato a memoria). Tre verità, in particolare: un produttivismo assurdo e privo di anima; un’infelicità remissiva, che non ha il coraggio di ammettersi e si nasconde dietro la foglia di fico di un insensato e volgare ottimismo; e poi la sciatteria (nelle sue varie declinazioni) come maniera d’essere, mancanza di sintassi interiore, più in generale come forma della mente che troppo spesso soffoca il meglio e lascia suppurare il peggio.
«Oggi tutti si prendono terribilmente sul serio. Meno valgono, più si prendono sul serio», dice la Vedova ne “Il delirio del particolare”. Vitaliano Trevisan non c’è più, ma il suo ricordo e la sua presenza, si vorrebbe quasi dire la sostanza del suo “esserci” proustiano a prescindere dall’accidente biologico della morte, rimangono un punto di riferimento. Le sue parole affilate come coltelli continuano infatti a incidere la carne viva di tutte le ipocrisie, le losche miserie e l’irredimibile e infetto squallore (non solo) italiano. Ha scritto in un passo di “Tristissimi giardini”, citando “Le temps en ruines” di Marc Augé: «Anche se ce ne rendiamo conto solo in modo effimero e intuitivo, vi sono, nel mondo che ci circonda e in ciascuno di noi, zone di resistenza all’evidenza. Lo scopo del viaggio, lo scopo della ricerca letteraria, dovrebbe essere, ed è talvolta, l’esplorazione di queste zone di resistenza». E’ presto per dire se Vitaliano Trevisan sia stato o meno un grande scrittore da eternare nell’algido pantheon dei classici moderni, ma senza dubbio è stato lo scrittore più drammaticamente sincero, coerente e autentico di questo ultimo periodo, fino alle estreme e purtroppo inevitabili conseguenze. L’impossibile resistenza all’evidenza: in fondo, cosa aveva scritto nel 1962 il suo “antenato” Guido Piovene ne “La coda di paglia”? «Quell’intruglio di meschinità utilitarie, di piccoli cinismi, di ambizioni senza speranza, di servilità vanitosa, di calcoli aridi sugli altri, nei quali sparisce perfino la nozione che esistano l’amicizia, la pietà, l’amore».