È l’aprile del 1978. In Giamaica, gangster al soldo dei due partiti politici che detengono il potere sparano e lasciano morti per le strade della capitale Kingston. Il confronto fra destra e sinistra, fra Jamaica Labour Party e People’s National Party somiglia molto a una guerra civile. Bob Marley è a Londra in quel periodo ma viene convinto a tornare a casa per partecipare a un grande concerto di pace, che si spera metta fine alle violenze. A Londra ci è andato due anni prima, dopo che qualcuno ha sparato a lui, a sua moglie Rita e al suo manager, ferendoli tutti e tre. Anche lì c’era di mezzo un concerto. Marley aveva un peso, un grandissimo seguito, era ascoltato e nella infiammabile atmosfera giamaicana qualcuno non voleva che salisse sul palco. Quell’imboscata nella notte pochi giorni prima dello spettacolo, con uomini armati a sparare in casa sua, non lo fermò e anzi aumentò ancora di più il suo carisma. Lui cantò lo stesso, nonostante la ferita al braccio, anche se poi decise, appunto, di autoesiliarsi in Inghilterra. Tornato in Giamaica per il One Love Peace Concert, così venne battezzato l’evento del 1978, Marley non solo si esibì nuovamente ma riuscì anche a fare accadere qualcosa di impossibile. I leader delle due fazioni politiche, acerrimi nemici, erano Edward Seaga – futuro uomo di Reagan sull’isola caraibica – e Michael Manley, primo ministro che aveva varato un programma di ispirazione socialista. Marley li chiamò sul palco e li convinse a stringersi la mano di fronte alla folla. Non fu la fine delle violenze, che anzi in seguito aumentarono. Ma è innegabile che la carica simbolica sia stata enorme.
In questo episodio c’è parecchio di Bob Marley. Non solo un artista, non solo un musicista, ma anche una sorta di guida spirituale, un uomo diventato un simbolo, forgiato dal contesto in cui era cresciuto. Prima rockstar mondiale venuta dal terzo mondo, profeta del reggae, attivista circondato da un’aura mistica, personalità amata e seguita, voce di chi voce non aveva… È stato definito in parecchi modi durante e dopo una carriera finita l’11 maggio del 1981, quando fu portato via da un cancro. Nel suo percorso si intrecciano indissolubilmente molte cose. C’è la musica, certo, quel reggae di cui è tutt’ora il rappresentante più noto. Ma c’è anche tutta la storia della Giamaica, ex colonia britannica che solo nel 1962 ottenne l’indipendenza, un’isola dove la maggioranza della popolazione discende dagli africani strappati alla loro terra dai mercanti di schiavi. C’è il rastafarianesimo, che non si riduce ai dreadlocks e alle canne fumate in maniera ritualistica che pure lo connotano, ma che è un movimento religioso di derivazione biblica, che predica il ritorno degli africani alla loro patria e che ha visto in Hailé Selassié, imperatore d’Etiopia, l’incarnazione di Jah, il Dio in terra. C’è il contesto di povertà di un ghetto difficile come quello di Trench Town a Kingston, dove si patisce la fame e la musica è non solo svago, ma anche medicina, riscatto e fonte di informazione su quello che succede.
Robert Nesta Marley è proprio lì che è cresciuto, a Trench Town, trasferendosi nella capitale appena dodicenne dopo un’infanzia vissuta nella sperduta Nine Mile. Era nato in quella zona rurale il 6 febbraio del 1945, figlio di una donna nera e di un bianco che poco dopo l’ha abbandonata con un bimbo da crescere: un bimbo che non è accettato da nessuna delle due comunità e che dovrà presto imparare a farsi rispettare. Ma è uno tosto il piccolo Bob, e la musica gli darà ulteriore forza. I primi rudimenti di chitarra li apprende nel cortile di casa, in mezzo alla gente che osserva, partecipa, suggerisce versi di canzoni. Dirà sempre che la sua musica viene dal popolo. Quello di cui canterà, il riscatto dall’oppressione, la fame e la miseria, lui a differenza di molti suoi colleghi impegnati lo ha conosciuto davvero e vissuto sulla propria pelle. Insieme all’amico Bunny Wailer – al secolo Neville O’Reilley Livingston – e a Peter Tosh mette su gli Wailers. Non siamo ancora a quel reggae di cui Marley diverrà l’indiscusso portavoce ma si comincia da qui.
È una storia meticcia anche quella della musica “pop” giamaicana. Ci sono sonorità tradizionali come il mento e il calipso e poi l’influenza del rhythm’n’blues statunitense che giungeva sull’isola sulle onde delle stazioni radio della Florida. Semplificando al massimo qualcosa di molto più complicato, la contaminazione fra queste sonorità e le loro reinterpretazioni portò inizialmente alla nascita dello ska, con i suoi caratteristici ritmi in levare, e da qui al più lento rocksteady che finirà per generare il reggae. È marcatamente ska il primo successo casalingo degli Wailers, Simmer Down del 1964. Contiene già elementi di quella consapevolezza sociale che Marley andrà sviluppando sempre di più nel corso del tempo. È un appello alla calma quella canzone, rivolto agli agitati rude boys dei ghetti di Kingston, gente della strada a cui Marley sa parlare perché di quella cultura fa parte. Questa consapevolezza si espanderà ulteriormente nella breve parentesi americana che vivrà in quegli anni, raggiungendo la madre nel Delawere, dove nel frattempo la donna si è trasferita in cerca di una vita migliore. Prima di tornare in patria, il giovane Bob vi lavora per qualche tempo, come operaio alla Chrysler, toccando con mano le discriminazioni subite dai neri americani e le battaglie per i diritti civili. L’adesione al rastafarianesimo fornirà una base spirituale per tradurre questi vissuti in un messaggio più universale, in grado di essere ascoltato e compreso ai quattro angoli del pianeta. Ma perché questo succeda occorre che gli Wailers si facciano conoscere fuori dai confini della realtà musicale giamaicana. Fondamentale è l’incontro col produttore inglese Chris Blackwell e con la Island Records. E lui che intuisce tutte le potenzialità di Marley e degli Wailers e trattandoli e vendendoli come un gruppo rock riesce a dare alla loro musica quel sapore che la rende appetibile per i mercati internazionali. È il 1973 quando esce l’album Catch a Fire ed è l’inizio del Bob Marley così come lo conosciamo e della fine degli Wailers del primo periodo. Bunny e Tosh negli anni seguenti lasceranno la band, mentre Marley e i “nuovi” Wailers si lanciano in tour massacranti e sfornano album e canzoni destinate a entrare nella storia, pervase da un messaggio che insieme è spirituale e militante, ma anche avvincente per le folle.
Dei suoi concerti, come quello che nel 1980 radunò una folla di 100 mila persone a San Siro, si parla quasi come di esperienze mistiche. Gino Castaldo, critico musicale e giornalista italiano, allora inviato di Repubblica all’evento milanese, ci si è spesso riferito come a una sorta di rituale sciamanico, un’esperienza di trance collettiva. È innegabile che uniti, gli elementi ipnotici del reggae, quel pulsare di basso e batteria, il fortissimo carisma di Marley, i testi che parlano di identità, di riscatto, di opposizione alle oppressioni, amore universale, veicolati da canzoni che avevano abbracciato anche il linguaggio del pop e del rock, creassero qualcosa dall’enorme potenza pervasiva. Vero, a rivedere stralci delle – rare – interviste concesse da Marley, molte sue affermazioni possono anche suonare retoriche e non prive di contraddizioni non risolte. La critica al sistema occidentale, a quella Babilonia basata sui soldi così come la vede il rastafarianesimo, stride con i fiumi di denaro provenienti dall’essere una rockstar che si muove in quello stesso sistema. Ma non cambia la sostanza.
Marley si è sempre considerato un uomo con una missione e da questo punto di vista l’esposizione, la fama e il successo gli hanno consentito di portare avanti nella maniera più efficace il compito che si era assegnato, portando il suo messaggio al mondo intero. “Non ho ambizioni – disse una volta – Ho solo una cosa che vorrei davvero. Vorrei vedere l’umanità vivere insieme. Neri, bianchi, cinesi, tutti. Tutto qua”. Lavorò fino alla fine, anche quando la malattia lo stava mangiando dall’interno. Glielo avevano scoperto anni prima quel melanoma maligno all’alluce, dopo un incidente in cui si era fatto male durante una partita di calcetto. Non curato, il tumore si diffuse e lo uccise. Bob Marley si spense in un ospedale di Miami, in Florida, all’età di 36 anni. Pochi giorni dopo la sua isola gli tributò imponenti funerali di Stato. “Ha combattuto per la giustizia ed è stato un conforto per gli oppressi” disse nel discorso funebre Edward Seaga, divenuto nel frattempo primo ministro.
Bob Marley non è stato affatto dimenticato. La sua numerosa famiglia gestisce i diritti sulla sua musica ed è una vera e propria azienda. Molti dei suoi figli sono diventati artisti a loro volta. La raccolta dei suoi più grandi successi, Legend pubblicata nel 1984, ha venduto milioni e milioni di copie nel mondo. Il reggae, già mentre Marley era in vita, si è saldamente consolidato come uno dei linguaggi musicali moderni, diffondendosi in tutto il pianeta, mutando, contaminandosi, influenzando culture e controculture.
Un profeta in musica avvolto in una nuvola di ganja, portatore di un messaggio di pace, amore, tolleranza e resistenza. Un messaggio positivo, capace di rilassare, far pensare e ballare, ma mai remissivo perché uno cresciuto nel ghetto è abituato a levarsi e a combattere, a resistere, a non arrendersi e a non schivare la lotta, prima fra tutte quella per i diritti, i suoi e quelli di tutti. Padre di una dozzina di figli avuti da numerose donne – “sono fedele solo alla legge di Jah”, diceva – ma legato fino alla fine alla moglie Rita, compagna di vita e di musica. È stato molte cose Marley, così come molte cose sono le canzoni che ha reso immortali. No Woman No Cry, Exodus, Jammin’, la toccante Redemption Song registrata verso la fine dei suoi giorni, ultima traccia dell’ultimo album Uprising, che con quel suo rimando alle “canzoni di libertà” suona come un testamento. Buffalo Soldier, Get Up Stand Up, One Love... L’elenco è lunghissimo. Struggenti, ribelli, impegnate, lenitive, sono entrate profondamente nell’animo del mondo, primo, secondo, terzo o quarto che sia, anche perché vere, vissute in prima persona, nel corpo e nel cuore. Una delle più acute e sintetiche definizioni della sua opera alla fine l’ha data Tom Morello, chitarrista dei Rage Against The Machine, quando la rivista Rolling Stone qualche anno fa ha chiesto a diversi artisti cosa pensassero di Bob Marley: “le sue canzoni confortano le anime irrequiete, alimentano le fiamme della resistenza e fanno partire la festa, spesso tutto in un colpo solo”.