Probabilmente le celebrazioni di un disco così importante, amato e travolgente, Bruce Springsteen (75 anni a settembre) le immaginava diverse. Due serate nel “suo” stadio, San Siro (dove avrebbe voluto aprire con 4 serate il tour bloccato nel 2020 dalla pandemia) l’1 e 3 il giugno. Ci si è messa questa primavera al rallentatore, piena di pioggia, freddo e sbalzi climatici, a cambiare i programmi per lui e per quanti avevano già in tasca da mesi il biglietto. E chissà che per l’occasione, in una delle due serate, non fosse già pronta la replica della notte magica del 3 luglio 2013, quando “Born In The Usa” fu eseguito a San Siro, dall’inizio alla fine, in sequenza.
“Born in The USA” esce il 4 giugno del 1984, ma la sua genesi risale a parecchi anni prima. Subito dopo la fine della tournée di “The River”. Dopo i fasti di quel tour, Springsteen si prende un po’ di riposo nella sua casa a Colts Neck, New Jersey. Tanta adrenalina da scaricare, tanta fatica e i primi segnali di una latente depressione incombente (come racconterà nella sua autobiografia). In quei giorni immagina anche di cambiare il suo “modus operandi” basta con la routine di presentarsi in studio con abbozzi di canzoni da strutturare suonando ore e ore con la E-Street band… Si compra un registratore multitraccia, e incide abbozzi di canzoni, armonie, idee spaziando tra la cucina e la camera da letto.
Da quegli esperimenti nasce “Nebraska”: in questo disco e in questo percorso creativo avremo modo di tuffarci, verosimilmente nel 2025, grazie a “Deliver Me from Nowhere”, film basato sull’omonimo libro di Warren Zanes, diretto da Scott Cooper con Jeremy Allen White, star della serie “The Bear”, nei panni del Boss.
Ma è in quei giorni che su quel 4 piste, Springsteen cristallizza su nastro “Born in the U.S.A.”, “Downbound Train”, “My Hometown”, una bozza di “Working on the Highway”. Canzoni che insieme a quelle che formeranno “Nebraska”, tenterà di incidere in studio con la E-Street Band. Ma che non saranno parte del disco, pur se musicalmente molto affini. Saranno invece il punto di partenza dell’album successivo.
Con buona parte delle canzoni già pronte, Springsteen prosegue il suo lavoro di costruzione per l’album rock che vuole pubblicare subito, anche perché la versione elettrica di “Born in the USA” è talmente esplosiva che deve trovare la sua collocazione in un disco altrettanto forte e irresistibile. A stimolarlo ulteriormente anche il suo trasferimento in California, dove gli anni ’80 sono esplosi ad ogni livello culturale, in particolare per la musica e il cinema. Quando Springsteen e compagni si ritrovano in studio, nascono decine di brani, tutti regolarmente incisi in più versioni e poi messi da parte (alcuni pubblicati come b-side dei 7 singoli che saranno estratti dall’album). E anche gli screzi con l’amico di sempre Miami Steve, che annuncia di voler lavorare ad un progetto personale e di lasciare la E-Street Band, pur rimanendo nel team per il disco, passano in secondo piano. Nel disco finirà anche “Cover Me” inizialmente scritta per Donna Summer: sarà il manager del Boss, Jon Landau, a proibirgli di cederla, anche se un po’ troppo pop rispetto al resto delle altre.
All’album la cui scaletta viene riscritta quotidianamente, manca qualcosa… un singolo forte, una canzone che faccia la differenza. Dopo l’ennesimo faccia a faccia, Springsteen si rivolge a muso duro a Landau: “se ancora non ti basta tutto quello che abbiamo fatto, scrivitela da solo la canzone”! Non andrà così: la mattina dopo tutti convocati in studio, per registrare una cosa nuova. “Dancing in the dark” diventa il singolo di lancio dell’album (sarà pubblicata il 4 maggio 1984).
Nel 1984 il CD era ancora materia per pochi e benestanti; chi faceva musica ragionava ancora a facciate -lato A e lato B- come gli Lp, come le cassette. Quella divisione, in “Born in the USA”, è il confine tra lo Springsteen di Nebraska e quello della nuova consapevolezza, della star che ormai non si può più nascondere, che deve accettare e gestire il suo status.
Il disco inizia con l’esplosione di energia di “Born in the USA”, prosegue con “Cover Me”, “Darlington County”, “Working on the Highway”, “Downbound Train” e “I’m on fire”, in gran parte ereditate dal multipista di “Nebraska”. Sul lato B si va da “No Surrender” a “Bobby Jean”, da “I’m Goin’ Down” a “Glory Days” da “Dancing in the Dark” a “My Hometown”, la canzone che segna anche liricamente per Springsteen il recupero delle radici e dei valori personali.
Con 15 milioni di copie vendute nei soli Stati Uniti, il successo globale e un tour monumentale di due anni, Springsteen deve cominciare a fare i conti con il suo nuovo status. Ad “aiutarlo” ci pensa nientemeno che Ronald Reagan, il Presidente degli Stati Uniti, in carica dal 1981, che in occasione della campagna elettorale per la rielezione, transitando da Hammonton, New Jersey, decise di appropriarsi del messaggio e del personaggio di Springsteen.
Sarà anche il disco che, terminata la tournée mondiale -senza Steven Van Zandt, sostituito da Nils Lofgren - porterà grandi cambiamenti al mondo del Boss: la E-Street Band è prossima al capolinea (ma noi sappiamo che, anni dopo, la corsa riprenderà) al capolinea. Springsteen in gran segreto sposa l’attrice Julianne Phillips: matrimonio che durerà poco, visto che la nuova corista della band, Patty Scialfa, diventerà a breve la vera e unica “donna del Boss”.
“Born in the USA” non è sicuramente il disco più bello di Springsteen (dal 1975 al 1982 se ne può scegliere uno a caso da mettere in cima alla classifica di qualità) ma di certo è quello più famoso, più importante e più riconosciuto dal grande pubblico, perfetta fotografia di un grande artista al massimo della sua espressività, della ricerca di consenso e di nuove sfide. Che continuerà a raccogliere fino ad oggi, 40 anni dopo quella estate incredibile che lo ha portato in cima alle classifiche di mezzo mondo.
40 anni di “Born in the USA”, Echi di storia
Millevoci 04.06.2024, 10:05
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