Britney Spears. Justin Timberlake. Demi Lovato. Christina Aguilera. Selena Gomez. Miley Cyrus. Hilary Duff. I Jonas Brothers. La lista delle popstar lanciate dagli show di Disney Channel è piuttosto lunga, così come la storia del loro rapporto travagliato con la casa di Topolino, una volta raggiunta la maggiore età ed espresso il desiderio di una carriera indipendente.
La generazione dei Timberlake e delle Spears aveva tagliato i ponti e scelto altre major musicali, una volta presa la decisione di cominciare una carriera lontano dalla Disney. All’inizio dei Duemila però quest’ultima ha tentato di trattenere in casa i talenti irrequieti, proponendo loro contratti con l’etichetta sussidiaria Hollywood Records, rinvigorita per l’occasione con un’iniezione di milioni di dollari. La prima a scegliere la fedeltà a Disney fu Hilary Duff, che aprì la strada per un nuovo modello di business che prevedeva la promozione delle nascenti stelle attraverso Disney Channel, Radio Disney e (soprattutto) il colosso ABC: presto i Jonas Brothers, Demi Lovato, Miley Cyrus e Selena Gomez seguirono le orme della Duff. Tuttavia, il controllo strettissimo che Disney imponeva – su suono, testi, produttori, ma anche abigliamento e rapporti con i media – avrebbe portato a separazioni ben più acrimoniose. O meglio, al tentativo di emanciparsi completamente da qualsiasi cliché Disney. Come? Nel modo più semplice: costruendo immagini ipersessualizzate, sublimate naturalmente nel celeberrimo videoclip di Wrecking Ball di Miley Cyrus.
La storia di Olivia Rodrigo, a ben guardare, è simile a quelle citate, eppure unica. Così come il suo successo.
Olivia Rodrigo, la Disney, il successo di Sour
La Rodrigo ha chiuso con Disney senza rancore, ma saltando a piè pari il tentativo di continuare a essere un volto di Topolino, come invece avevano fatto Gomez, Cyrus e Lovato. Sour, il disco di esordio di Olivia del 2021, aveva testi aggressivi, non si preoccupava di attingere da un ricco catalogo di volgarità ed era accompagnato da video musicali che si prendevano gioco del modello della teenager-studentessa-cheerleader che ha fatto la fortuna di molte star precedenti (certo, Britney). Il giorno dell’uscita del suo primo singolo Drivers License, Olivia Rodrigo non aveva ancora compiuto 17 anni, e pensava che sarebbe stata una delle protagoniste di High School Musical ancora per un po’. Invece la canzone è esplosa così rapidamente da convincerla a lasciare il cast – e soprattutto, da farla diventare una cantautrice prima in classifica al primo tentativo. Alle altre non era riuscito, nonostante il percorso simile: Miley Cyrus è arrivata al top solo con Wrecking Ball; Selena Gomez con Lose You to Love Me, dopo dieci anni di carriera. Olivia Rodrigo è stata un’altra storia, e Sour un fenomeno capace di riunire tutte le caratteristiche distintive della hit virale degli anni Venti: Tik Tok come catalizzatore e gli altri social media come combustibile, più l’istantanea orecchiabilità e il modo convincente di presentare la rabbia della sua autrice. Sembrare in qualche modo autentici è in fondo ancora la chiave del successo, nonostante il mondo dello spettacolo e dei media dovrebbe averci ormai abituato a un certo disincanto al riguardo. Eppure.
Guts e il pop della Generazione Z
Ciò che appare chiaro anche all’occhio dei critici anagraficamente più lontani da Olivia – anche con il nuovo album Guts fresco di stampa, che sta stra-vendendo negli Stati Uniti – è il suo rappresentare perfettamente la voce della generazione Z, grazie a due elementi fondamentali: la semplicità dell’esposizione e la tendenza a un certo melodrammatico vittimismo. A dirla tutta, non sono così convinto che queste caratteristiche siano proprie solo dei tardo-adolescenti di oggi, ma nell’ultima generazione arrivata alla soglia dei vent’anni sembrano particolarmente sviluppate.
Cominciamo dalla semplicità: i testi tendono sempre a spiegare e a descrivere, senza andare oltre. Vi ricordate il pop degli anni Novanta, quando perfino i sempliciotti di Beverly Hills 90210 si facevano trasportare dalle immagini evocative di Losing My Religion? “Consider this / the hint of the century / Consider this / The slip / That brought me to my knees, failed / What if all these fantasies come / Flailing around / Now I’ve said too much”… Ecco, qui non c’è nulla del genere. La Rodrigo invece ha trovato il successo dicendo cose come “Sono così stufa di avere 17 anni / Dov’è il mio fottuto sogno adolescenziale?”. Di evocativo, nei suoi testi, c’è ben poco. Il magazine The Atlantic, raccontando lo stile della Rodrigo, ha parlato di frasi “da avvocato”, valide e comprensibili, con l’immediatezza “di un buon saggio da college”. La conclusione è che se per un lungo periodo – possiamo dire grosso modo, dai Beatles in poi – i cantanti pop hanno ricercato l’uso di metafore e suggestioni, parole complesse e ambivalenti, oggi invece va di moda essere molto letterali, onesti, senza ambiguità poetiche. È un approccio che può anche portare a ottimi risultati, e che tuttavia suona poco interessante alle orecchie di chi è cresciuto con testi di epoche differenti. E non si tratta solo della musica americana: quanta distanza c’è – detto con la massima laicità possibile – tra il 1977 di Lucio Dalla e il 2017 di Sfera Ebbasta, in questo senso?
L’altro elemento è appunto il vittimismo melodrammatico, in realtà tipico di ogni adolescenza dalla seconda metà del Novecento in poi – cioè da quando le vite dei ragazzi hanno cominciato a diventare piuttosto comode, per fasce sociali sempre più ampie. Tuttavia, la generazione Z sembra particolarmente legata all’idea che chiunque nasconda una sofferenza speciale, un trauma unico, una sofferenza mai provata prima – e questo naturalmente a causa dell’effetto di amplificazione dei social network. Così, anche nell’ultimo Guts la Rodrigo si lamenta delle trappole del successo, delle persone che l’hanno manipolata, degli arrampicatori sociali, dell’impossibilità di corrispondere a standard di bellezza imposti dall’esterno, degli amanti stupidi, inutilmente crudeli, eccetera. Come molti hanno notato, questo è il genere di argomenti che un tempo erano pane quotidiano del rock, non del pop da classifica. E fin dal primo Sour, la posa della Rodrigo è quella di rockstar pop, una Courtney Love senza la vita di Courtney Love dietro – ma con un successo dieci volte più grande.
Decidete voi se vale la pena criticarla per questo, oppure se è meglio lasciarsi andare alla musica perfetta per le ragazze dell’anno 2023 – qualsiasi cosa questo significhi – e godersi testi come “Tutto quello che faccio è tragico/Tutti i tipi che mi piacciono sono gay”: il ridicolo sembra dietro l’angolo, e invece Olivia Rodrigo riesce a camminare in perfetto equilibrio su un filo sottilissimo, con consumato mestiere. Tutto quello che fa certo non è tragico. Tutto quello che fa è spettacolo.
Notiziario delle 10.00 del 04.04.22
RSI Cultura 04.04.2022, 10:07
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