Non giudicare un libro dalla copertina, ma vale anche per i dischi.
Tuttavia non si può negare che i Metallica stavolta si siano superati, in peggio: la copertina di 72 Seasons (che potete ammirare qui sopra) entra di diritto tra le più brutte della storia di una band mai stata famosa per il buon gusto, non guadagnando la prima posizione di un immaginario podio negativo solo perché tra i concorrenti ci sono inguardabilità come le cover di Load e ReLoad. Che certo, sono opera di un artista piuttosto quotato, Andres Serrano, e tuttavia non è difficile condividere l’opinione di James Hetfield, che pare detestasse quelle copertine.
Tornando al nuovo 72 Seasons, non è tanto la palette di colori nera e gialla a disturbare, e neppure la presenza di un nuovo logo “minimale”, che si limita alla sola M per evocare il nome della band (anche se quest’ultima, avendo a disposizione il logo più iconico – per usare un termine abusato in questi tempi – della storia del rock, è una scelta a dir poco inaspettata). È proprio l’insieme, a essere urticante per gli occhi. Sarà che l’idea di base non sembra poi così lontana da quella della campagna realizzata da Gabriele Galimberti per la maison Balenciaga, che ha provocato grande scandalo nel mondo della moda – e in quello di chiunque avesse un cellulare in mano, apparentemente – a novembre scorso, lo stesso mese in cui i Metallica hanno svelato al mondo la copertina di 72 Seasons. Sto mettendo a confronto mele e pere, me ne rendo conto. E forse un migliaio di battute solo sulla cover di un disco sono troppe. Ma 72 Seasons è pur sempre l’evento più importante dell’anno per il metal (alcuni non saranno d’accordo, mi rendo conto anche di questo), quindi c’è da essere certi che ogni particolare di questo album verrà analizzato nel più piccolo particolare, da un fandom che, nell’anno che segna i quaranta tondi dall’album di debutto, è ancora attaccatissimo a un gruppo ormai entrato nel novero degli immortali.
Detto ciò, passiamo alla musica.
Anche perché sarebbe un peccato fermarsi alla copertina: 72 Seasons ha molto da offrire ai fan. E il primo regalo è una certa uniformità: a sette anni di distanza da Hardwired… To Self Destruct, che portava all’estremo il concetto di doppio album – anche dal punto di vista della qualità: le prime sei canzoni erano nettamente più riuscite delle seconde sei, a parte la conclusiva Spit Out the Bone – questo nuovo album sembra molto più compatto, nel suono e nel desiderio di ritornare ai fasti della prima parte della loro carriera. Oppure, se preferite, di scusarsi con i fan per tutto quello che è venuto dopo il 1991 e il successo gargantuesco del Black Album.
Infatti il primo riferimento è quello che apre il disco: Lux Aeterna, singolo di lancio, cita direttamente l’apertura di Kill ‘Em All Hit the Lights nel titolo, e nel testo la hit dello stesso album Motorbreath (“Full speed or nothing”) e perfino i Diamond Head del 1980, capostipite del nuovo metal britannico (“Amplification / Lightning the nation”). Importa davvero che i Metallica abbiano oggettivamente smesso di andare a-cento-all’ora-o-niente almeno trent’anni fa? È necessario sottolineare che le stesse parole, urlate da un neanche ventenne californiano che sta cercando di sfuggire all’educazione religiosa e alla tragedia della morte della madre (questo era James Hetfield quando scrisse Motorbreath), suonano molto diverse in bocca a una rockstar sessantenne che vive in una villa da trenta milioni di dollari? Oppure che il desiderio di tornare a un suono sporco e diretto rischia di non sposarsi bene con la precisione maniacale della produzione, impeccabile nella ricerca dei suoni e del mix più raffinato? In fondo, il bello della musica, e dell’arte in generale, è che permette a chi la fa di creare un’altra realtà. E i Metallica, al terzo disco consecutivo (da Death Magnetic del 2008, non contiamo Lulu con Lou Reed) di ritorno alle radici thrash metal, sembrano aver trascinato un po’ tutti in questo mondo parallelo in cui per guardare al proprio futuro musicale bisogna puntare gli occhi dritti verso il passato. I fan sembrano contenti – e sappiamo bene che se c’è da manifestare il loro dissenso, non perdono tempo – la critica musicale pure. Nel frattempo, i membri della band sembrano venire a patti con il passare del tempo: in 72 Seasons, ad esempio, Kirk Hammet sembra di nuovo in forma e pronto a dare il suo contributo artistico, ridotto a zero nel 2016 dopo il famigerato phonegate, lo smarrimento del telefono che conteneva 300 idee per altrettanti riff (ci chiediamo se quei file siano finiti nelle mani di qualche chitarrista concorrente…). Ma è soprattutto il frontman James Hetfield a vivere una seconda giovinezza, dopo un divorzio e un faticoso cammino verso la riconquista della sobrietà.
Dunque, successo su tutta la linea? Non ne sono certo, perché a pensarci qualcosa manca. In fondo, bisogna riconoscere che quello che ha elevato i Metallica oltre lo status di semplice band metal sono proprio quelle incredibili, efficacissime ballate rock del 1991, le stesse che già ai tempi fecero storcere il naso ai fan della prima ora. Eppure è stata proprio la capacità di tenere insieme le due dimensioni, quella più purista e quella più mainstream – mantenendo una qualità altissima in entrambe – a rendere unici i Metallica. Rinunciare a una delle due significa rinunciare a quella unicità. E per venire davvero a patti con il passato, non si può scegliere di cancellarne una parte.
Michele R. Serra