“Questa opera rock è stata adattata da due giovani inglesi, a partire da una storia originale di Dio.”
L’ironia non mancava, nelle recensioni uscite sui giornali dopo la prima di Jesus Christ Superstar al Mark Hellinger Theatre sulla Broadway newyorchese, 14 ottobre 1971. Uno spettacolo andato in scena “non senza proteste da parte di alcuni tipi strambi che, pare, ancora credono che Gesù sia il Salvatore, e non materiale commerciale per l’industria dello spettacolo”, scriveva il Guardian, mentre il New York Times sottolineava la presenza di celebrità di ogni tipo in quel teatro: “C’eravate, quando hanno crocifisso nostro Signore? No? Beh, Andy Warhol c’era”. E non parliamo neppure della cronaca del party che aveva chiuso la serata, passato alla storia come evento dell’anno: “Quando il vino è finito alle due del mattino non si sono visti miracoli, ma c'era comunque ancora un mare di scotch e gin con cui brindare al paroliere Tim Rice e al compositore Andrew Lloyd Webber.” Tra i festeggiamenti e il successo al botteghino – record assoluto di biglietti in prevendita – pochi si curarono del fatto che le stesse recensioni, una volta arrivate a discutere la qualità dello show, esprimessero giudizi non del tutto lusinghieri sulla messa in scena.
Del resto, perché preoccuparsi di quisquilie del genere? Le porte del paradiso – scusate, non ho resisitito, non si ripeterà – erano già spalancate: Jesus Christ Superstar portava la firma di Tom O’Horgan, regista di successi che avevano segnato un’epoca come Hair e Lenny. E soprattutto, arrivava sul palcoscenico forte degli oltre tre milioni di copie vendute dall’album uscito un anno e mezzo prima, capace di rendere ricchi un Webber appena ventenne e un Rice di poco più vecchio.
Già, perché è vero che stato il musical a cementare il mito di Jesus Christ Superstar: otto anni di repliche consecutive nel West End londinese, per non parlare del cinema. Ma il successo è stato prima di tutto – e soprattutto – musicale. E se dello spettacolo teatrale e del film ancora si può discutere, l’album è già storicizzato, se non altro, come uno tra i più emblematici prodotti del suo tempo.
Webber, a dire il vero, aveva sempre visto Jesus Christ Superstar come un musical, ma aveva ripiegato su di un concept album perché nessun produttore britannico sembrava voler mettere in scena mettere in scena quella che lui stesso aveva sentito definire “la peggiore idea della storia”.
In effetti quell’ora e mezza di epica rock, suonata con l’aiuto di un’orchestra completa e perfino di un coro gospel, furono un mezzo fiasco in Inghilterra, ma apprezzatissimi in America, con due milioni e mezzo di copie vendute nell’arco di un anno. Ancora oggi, Tim Rice si dice stupito del fatto che la MCA Records abbia finanziato due ragazzini sconosciuti che avevano per le mani solo un’idea piuttosto costosa da realizzare e un titolo a dir poco controverso.
Nonostante le premesse, possiamo comunque dire che l’album sia nato con le stimmate (ops) del predestinato, visto l’affollamento di nomi noti dell’epoca tra i musicisti: ci suonavano e cantavano, oltre naturalmente a Murray Head nel ruolo di Giuda, Ian Gillan dei Deep Purple, Michael d'Abo dei Manfred Mann, Madeline Bell delle Blue Mink. Unica vera outsider del gruppo era la diciannovenne originaria delle Hawaii Yvonne Elliman, notata da Andrew Lloyd Webber mentre cantava Blowing in the Wind per 5 sterline a sera in un locale lungo la King's Road: lei stessa ha raccontato che quando Webber arrivò nel locale a notte fonda, gridandole “Sei la mia Maria Maddalena!”, cadde nel più classico equivoco di chi ha scarsa familiarità con le sacre scritture, e credette di avere avuto il ruolo della madre di Gesù. Giusto per sottolineare una volta di più il fatto che, beh, l’afflato religioso non era certo tra le forze ispiratrici per autori e cast. Ma forse, semplicemente, non era l’epoca giusta: Tim Rice ha raccontato come le registrazioni siano state portate a termine velocemente, sotto una fitta coltre di fumo di marijuana, negli stessi studi londinesi (gli Olympic) in cui i Rolling Stones avevano inciso Sympathy for the Devil. In quell’ambiente Ian Gillan registrò la sua parte nei panni di Gesù, e la sera stessa salì sul palco per tre ore di concerto con i Deep Purple. Vorrei parlare di energia soprannaturale, ma ho promesso di piantarla con le battute.
Il risultato, in ogni caso, è enorme quasi quanto era l’ambizione musicale di Webber e Rice: un concept album molto più coerente, accessibile e concreto dei grandi successi dell’epoca, con canzoni perfette capaci di rivaleggiare con le migliori rappresentanti di ogni sottogenere rock coevo. E l’epoca di cui stiamo parlando – se ci fosse bisogno di sottolinearlo – è quella dei primi Settanta, in cui il rock era la più incredibile forza culturale al mondo. Ogni sfumatura di quel movimento è rappresentata, dal progressive dell’Ouverture all’hard rock di pezzi come Heaven on their minds, fino al cantautorato di I don’t know how to love him e alle atmosfere jazzate di Everything’s Alright.
La qualità davvero unica di Jesus Christ Superstar sta però soprattutto nel fatto che, nonostante si diverta a giocare con il vocabolario del rock (e non solo), Webber riesce sempre a rimanere ancorato all’idea fondamentale del pop: ogni idea musicale deve partire da una melodia capace di infiltrarsi come un virus nell’orecchio di chi ascolta. Così, non importa se dentro Jesus Christ Superstar si possano sentire echi di Prokofiev o Stravinskij, Pink Floyd o Emerson, Lake & Palmer, Dave Brubeck o chiunque altro: è un disco dall’anima pop. Si veste con i colori della rivoluzione rock e si ammanta di iconoclastia fin dalla prima idea, eppure è costruito per piacere al pubblico. E questa non è affatto una critica. Semmai, un’ulteriore prova per la causa di beatificazione.