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Hallelujah non è una canzone di Natale

La storia e le mille vite del pezzo che ha consegnato Leonard Cohen al mondo e alla storia (facendo la fortuna di molti altri cantanti)

  • 26.12.2022, 13:43
  • 14.09.2023, 09:20
Il cantautore canadese Leonard Cohen al Coachella Music Festival di Indio

Il cantautore canadese Leonard Cohen al Coachella Music Festival di Indio

  • Reuters

Di solito le canzoni di Natale parlano del Natale. O almeno lo nominano, se non altro. Di solito le canzoni di Natale sono canzoni pop. Di solito le canzoni di Natale non parlano di sesso.
E allora cos'è che ha portato Hallelujah di Leonard Cohen nelle playlist natalizie? E perché sentiamo spesso quella canzone nei centri commerciali e alla radio, intorno alla seconda metà di dicembre? Certo, generalmente non si tratta della versione originale di Leonard Cohen, ma di quella più orecchiabile di John Cale, o ancora più spesso di quella perfettamente generica cantata a cappella dagli americani Pentatonix. L'associazione Hallelujah – Natale è cominciata negli anni Dieci, quando la regina di Britain's Got Talent Susan Boyle l'ha inclusa nel suo album natalizio The Gift, vendutissimo in Inghilterra; ricordiamo poi almeno la popstar tedesca Helene Fischer, che ha incluso la sua versione nell'album Weihnachten, un milione e mezzo di copie vendute in Europa. E infine i già citati Pentatonix: attualmente la loro cover conta settecento milioni di views solo su Youtube.

Una canzone d'amore diventa inno natalizio

Hallelujah è una canzone d'amore, in cui il narratore – perdonate la semplificazione – cerca di riconquistare una donna, pur sapendo che è perduta per lui. È una canzone che parla di confusione, di dubbi, di timori. Contiene ricordi del passato, e soprattutto immagini bibliche alternate ad altre di sesso. Del resto l'autore di quella che è stata la cover più famosa, Jeff Buckley, l'ha definita "l'Alleluia dell'orgasmo". Eppure il titolo e l'oscurità del testo sono bastati a creare l'equivoco: oggi, soprattutto nei paesi anglosassoni, viene suonata ai matrimoni e ai funerali. Oltre che, come già detto, a Natale, fino a essere trasformata perfino in inno cristiano tout court dal duo christian pop americano Caleb + Kelsey (pur se Leonard Cohen era, in effetti, ebreo per educazione e buddista per scelta). Un pezzo universale, che conta decine di cover con testi diversi ed è stato adottato in decine di contesti differenti. Un pezzo misterioso, tanto da diventare il centro di un documentario presentato fuori concorso a Venezia 2022.

La difficile lavorazione di Hallelujah

Forse neanche Leonard Cohen sapeva esattamente quale fosse il vero significato di Hallelujah. la cui versione originale fu pubblicata nel 1984 come prima traccia del lato B del suo album Various Positions. Cohen ha spesso ricordato come la composizione del brano sia stata estenuante: aveva composto circa 80 strofe nel corso di cinque anni, prima di ridurle a quattro per la registrazione finale in studio. Quando ne aveva parlato a Bob Dylan, aveva mentito, raccontandogli di avere la canzone in lavorazione da soli due anni: si vergognava della sua lentezza. Quando finalmente Hallelujah fu registrata, non piaceva per niente a Walter Yetnikoff, il presidente della CBS Records, che secondo i testimoni dell'epoca disse qualcosa tipo: “Non è musica pop. Non la pubblicheremo. È un disastro”. In effetti, l'intero album rimase senza distribuzione sul suolo statunitense per più di un anno. E quando finalmente fu pubblicato, non riuscì certo a competere nelle classifiche con Michael Jackson e Madonna.

La rinascita di Hallelujah

All'alba dei Novanta comincia la rinascita di Hallelujah: prima con un album tributo a Cohen realizzato dalla rivista musicale francese Les Inrockuptibles, che conteneva una cover di John Cale. Poi con Jeff Buckley, allora giovane musicista di belle speranze, che soggiornando in un appartamento di New York il cui proprietario possedeva una copia di quello stesso disco si imbatté nella canzone, e decise di farla sua: Hallelujah finì dentro il suo disco di maggior successo, Grace, e dopo la morte prematura di Buckley divenne quasi uno standard moderno. Quasi, perché la definitiva consacrazione avvenne nei primi Duemila grazie – incredibilmente – a un cartone animato: era il 2001 quando il regista Andrew Adamson decise di includerla nella colonna sonora di Shrek, facendola ricantare a Rufus Wainwright, per accompagnare la scena in cui il protagonista (che, ricordiamolo, è un orco verde amico di un asino parlante) si sente abbandonato. Per quanto lievemente (…) fuori contesto rispetto alle intenzioni originarie di Leonard Cohen, quella sequenza ha contribuito a far entrare la canzone nell'immaginario di una nuova generazione.
Così ci completava la nascita di quello che Alan Light (giornalista e autore di The Holy or the Broken, un intero saggio dedicato solo all'improbabile storia di Hallelujah) definisce un “unicorno pop”, una canzone misteriosa, personale e intima, diventata universale e buona per tutte le occasioni, Natale compreso. Indipendentemente dagli incidenti di percorso (tra i quali possiamo ricordare le versioni di Jon Bon Jovi, e di qualsiasi partecipante di talent show televisivo dell'ultimo decennio), è una bella rivincita nei confronti di quel famoso signor Yetnikoff, che quasi quarant'anni fa l'aveva snobbata. Del resto si sa che i discografici, di musica pop, capiscono poco.

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