Viviamo nell’epoca in cui chi ha successo ha sempre ragione. Eppure non sempre il successo fa bene. Prendete i Sigur Rós: certo, sono stati le stelle più sfolgoranti nel cielo del post-rock degli anni Zero; certo, hanno portato musica islandese nel mondo come solo Björk aveva saputo fare. Nonostante questo, sono diventati loro malgrado anche l’epitome della musica-tappezzeria depressiva, a causa della sovraesposizione di alcune loro composizioni al cinema, in tv, nelle pubblicità. Fino all’estremo di Hoppípolla, finita in una quantità abnorme di produzioni, tanto da diventare nota in Inghilterra come “la musica dei documentari della BBC”. I membri della band sono tra i primi ad avere sentimenti ambivalenti nei confronti di questo tipo di successo, e tuttavia è difficile siano davvero scontenti della loro parabola musicale: in fondo, quale altro musicista può affermare di aver colpito milioni di ascoltatori in tutto il mondo cantando canzoni in una lingua inventata?
La storia la sappiamo: a partire dal terzo LP (), il frontman Jónsi ha smesso di cantare in islandese per cominciare a farlo esclusivamente in una lingua incomprensibile chiamata "Vonlenska", che aveva già sperimentato nei primi due album, alternandola con la sua lingua madre. La Vonlenska (tradotta in inglese come "Hopelandic") è composta da sillabe senza senso, senza sintassi, grammatica. Senza parole, a dirla tutta. È composta di suoni utili a completare la melodia, il ritmo della musica: qualcosa di simile al canto scat nel jazz. Tuttavia, la Vonlenska non può dirsi completamente priva di significato, anche se ciò che comunica non è esattamente quello a cui serve abitualmente una lingua: esprimere idee, sentimenti, insultare altri automobilisti o cose del genere. Tolta la dimensione pratica alla lingua, rimane quella emotiva, evocativa, che è esattamente quella che interessa ai Sigur Rós, ed è in fondo quella ricercata spesso nella musica pop – anche da parolieri senza dubbio meno estremisti rispetto a Jónsi.
La Vonlenska funziona in modo estremamente efficace anche nel loro ultimo album, Átta, che appare un prodotto fuori dallo spazio e dal tempo a partire dalla formula: dieci canzoni che sfumano una nell’altra, poco meno di un’ora di flusso unitario. Facile capire che si tratta di un corpo estraneo rispetto all’era dello streaming, che spinge a produrre canzoni sempre più brevi e prevede l’impossibilità tecnica di eliminare completamente la pausa tra una traccia e l’altra.
La lingua inesistente completa perfettamente questa idea anti-commerciale, e ancora una volta coinvolge chi ascolta in un lavoro di interpretazione libera: Jónsi ha detto spesso che ogni canzone dei Sigur Rós è per definizione incompiuta, perché sono gli ascoltatori a doverne completare il significato, voce compresa. E quest’ultima rimane un pezzo fondamentale del puzzle: mentre altri alfieri del cosiddetto post-rock (Tortoise, Godspeed You! Black Emperor) hanno abbandonato la voce a favore di suite quasi completamente strumentali, i Sigur Rós perseverano nello sfruttarla, pur spogliandola di parte delle sue capacità comunicative. Forse è il loro modo di continuare a dimostrare, appunto, fiducia nelle capacità interpretative del pubblico: mica poco, in tempi in cui il fraintendimento e la decodifica aberrante di qualsiasi tentativo di comunicazione sembrano la norma.
Sono solo alcuni dei motivi per cui i Sigur Rós appaiono orgogliosamente fuori dal tempo, che è sempre una buona tecnica per ricercare l’immortalità artistica – ammesso che sia effettivamente l’infinito, l’obbiettivo di Jónsi e compagni. Un indizio a favore di questa ipotesi potrebbe essere l’ultima canzone, intitolata semplicemente 8, un brano che tira le fila musicali dell’intero album, chiude il cerchio e prepara chi ascolta a rientrare nel flusso da capo. Átta significa del resto proprio “otto” in islandese, numero che con l’infinito ha un’evidente affinità grafica.
… O forse sarà solo che questo è l’ottavo album della band, e come sempre critici e giornalisti tendono a esagerare con le letture simbologiche?
In ogni caso, a un quarto di secolo di distanza dall’esordio, i Sigur Rós rimangono una delle band più riconoscibili di questo strano periodo musicale d’inizio millennio. Il che non significa, beninteso, che facciano sempre lo stesso disco: in Átta le differenze rispetto al passato si notano, a partire dall’assenza delle batterie. Anche se non è chiaro se si tratti di una scelta puramente artistica, o dell’impossibilità di sostituire Orri Páll Dýrason, la cui carriera nella band è terminata qualche anno fa dopo le note accuse di violenza sessuale (al momento, non abbiamo notizie riguardo allo svolgersi della sua vicenda giudiziaria). Ancora più evidente è la presenza di un'orchestra di 41 elementi, che per quanto possa apparire logica conseguenza del percorso musicale del gruppo, riesce a produrre risultati perfino sorprendenti.
Quello che rimane è lo stile, per il quale – visto il già citato cambiamento dei tempi – vale la pena spendere l’inflazionata parola “resilienza”. Oppure possiamo dire, se preferite, che quella dei Sigur Rós è pura testardaggine nordeuropea.