L’ultimo indizio è arrivato dalle Fashion Week europee che si sono appena chiuse a Parigi. Nella capitale francese una folla di ragazzini ha bloccato la zona di Les Halles, nel tentativo di raggiungere la Bourse du Commerce in cui si svolgeva la sfilata di Saint Laurent. Segno di una mai sopita passione per il lusso della Generazione Z? No: desiderio di posare gli occhi anche solo per un attimo su Jeonghan, uno dei tredici (!) membri dei Seventeen, tra i gruppi K-Pop più noti al mondo. Il peggio – beninteso, solo per il traffico della città – doveva però ancora arrivare: Jimin e J-Hope dei BTS, nei giorni successivi, sono stati ospiti dei fashion show di Dior e Louis Vuitton, creando ancora maggior clamore. La settimana precedente era stata Milano ad andare in tilt causa presenza di idoli del K-Pop, con gli EnHypen al gran completo presenti alla sfilata di Prada. Del resto, lo sappiamo, la moda è intrattenimento, e i grandi marchi globali del fashion business hanno bisogno di testimonial che funzionino ovunque, da Tokyo a Los Angeles. Ma la moda è solo l’ultimo indizio di una tendenza diventata onda di piena nell’ultimo lustro, e che non sembra destinata a perdere potenza nell’anno che si è appena aperto.
Hallyu, l'onda coreana
Quest’onda è indicata da un parola precisa: Hallyu, la new wave coreana, fenomeno socio-culturale che ha permesso alla Corea del Sud di diventare uno degli epicentri della cultura pop a livello globale. Un movimento che è cominciato alla fine degli anni Novanta, quando la giovane democrazia coreana, finalmente matura dopo decenni di regimi più o meno autoritari, superò una grave crisi finanziaria per iniziare il nuovo millennio con una grande rinascita economica e culturale. L'Hallyu comprende cibo (la cucina coreana sta guadagnando popolarità a velocità supersonica, e i Korean BBQ spuntano come funghi nelle città occidentali), film (Parasite), serie televisive (Squid Game), e naturalmente – forse più che ogni altro elemento – musica. E qui il dato che più di ogni altro sottolinea lo strapotere commerciale del K-Pop è quello più inaspettato: nel 2022 i 15 artisti più popolari del genere hanno venduto, messi insieme, più di 45 milioni di copie fisiche della loro musica (per dare un’idea dell’enormità della cifra, il totale degli album fisici venduti negli Stati Uniti nel 2022 è di poco superiore ai 100 milioni). Un risultato incredibile nell’era del digitale, e ancora più per musicisti che si rivolgono alla generazione Z. Tra i best-seller dell’anno ci sono naturalmente i già citati BTS (il 2022 ha segnato il debutto da solista del leader RM, con l’album Indigo che contiene le collaborazioni con Erykah Badu e Anderson. Paak) e Seventeen (con Sector 17, repack del loro quarto LP Face the Sun), ma non sono da sottovalutare i risultati di gruppi come Stray Kids (Oddinary) e NCT Dream (Glitch Mode).
Il K-Pop non ha paura neppure del Covid-19
Ma perché possiamo essere certi che quest’onda coreana sia destinata a rimanere altissima anche nel 2023? Per il motivo più semplice, e cioè la fine della pandemia per l’industria musicale: questo potrebbe essere – tocchiamo ferro, ovviamente – l’anno in cui il mondo riapre davvero, e le star globali potranno capitalizzare davvero il loor successo. Ricordiamo, a questo proposito, che l’avanzata del K-Pop non è stata fermata neppure dal covid. Anzi: durante i periodi di lockdown, i BTS si sono esibiti in una serie di concerti online, rastrellando così tanti soldi che Rolling Stone ha dichiarato che quell’esperienza avrebbe cambiato l'industria musicale per sempre, dimostrando che il livestreaming a pagamento era una strada percorribile, e anche redditizia, capace di coinvolgere un pubblico mondiale, detto senza alcuna esagerazione.
Il fandom più agguerrito del pop
Il successo all’estero del K-Pop dipende probabilmente dal modo in cui gruppi come i BTS rappresentano l’evoluzione dell'ideale di boy o girl band promosso dall'industria musicale da almeno mezzo secolo. Un’evoluzione in senso globalista e – per così dire – collettivista: da una parte, molte canzoni K-pop sono letteralmente un mashup culturale di lingue, stili visivi e danza, spesso accompagnate dalla consulenza di hitmaker internazionali; dall’altra, l’accento è sempre posto sul collettivo, tanto da rendere poco stupefacente che un gruppo come i Seventeen sia diviso in tre sotto-unità con diverse specializzazioni (“hip-hop unit”, “vocal unit”, “performance unit”). Soprattutto, il K-Pop coltiva un rapporto con i fan di una profondità mai vista prima nell’industria musicale: Il potere del fandom ha ormai una portata globale, che va oltre il marketing e diventa concreto, perfino politico. Ad esempio dopo la morte di George Floyd nel maggio del 2020, i BTS e il loro management hanno donato un milione di dollari al movimento Black Lives Matter, cifra che i fan della band, la BTS Army, hanno raddoppiato in sole 25 ore. Sempre nel 2020, un comizio di Donald Trump in Oklahoma è stato rovinato quando la BTS Army ha fatto incetta di biglietti online per poi lasciare vuota l’arena di Tulsa, Oklahoma, in cui si svolgeva l’evento. Un potere di mobilitazione davvero impressionante: tutti sono capaci di vendere dischi, ma quale cantante pop ha la capacità di spingere i suoi fan ad agire in modi come quelli appena descritti? Ecco perché il pop coreano è diverso. E chi ancora rifiuta di riconoscerlo, forse semplicemente non ha capito dove sta andando il mondo.