Ricorrenze

Jeff Buckley, il destino e la grazia

Trent’anni di Grace, primo e ultimo capolavoro del cantautore americano

  • 23 agosto, 08:00
  • 23 agosto, 11:12
jeff buckley
Di: Michele Serra

Dipende tutto, sempre, dal punto di vista. Una storia è tragica o meravigliosa a seconda di chi la racconta, e non esiste realtà al di fuori della mente. Perdonate la filosofia da quattro soldi, ma pensare a Jeff Buckley significa pensare alle nostre convinzioni, farsi delle domande: ad esempio, se esista davvero il destino, o sia solo un’idea creata dall’uomo, per venire a patti con il caos incontrollabile dell’universo.

Jeff Buckley è morto nel tardo pomeriggio del 29 maggio 1997, annegato nelle acque del Wolf River di Memphis, tributario del Mississipi. Era entrato nel fiume per un bagno – cosa che pare avesse già fatto da quelle parti, ignorando i cartelli di pericolo – completamente vestito, senza togliersi neppure gli stivali, un paio di pesanti Dr. Martens (all’epoca erano molto di moda). Al suo amico Keith Foti, che gli faceva da roadie e gli aveva appena detto che buttarsi in quelle acque tutt’altro che limpide non era una buona idea, aveva risposto canticchiando l’inizio di Whole lotta love: «Hai bisogno di rilassarti / Baby non scherzo»...

Dopo un quarto d’ora, vicino a Jeff era passato un grande rimorchiatore, e lui era sparito tra le onde. Non sapeva che in quel punto il letto del fiume era stato scavato in profondità, proprio per rendere possibile il passaggio delle navi di maggiore stazza: era andato a fondo forse per una decina di metri, sommerso dall’acqua spostata dalla barca e appesantito dall’abbigliamento. Il suo corpo è stato ritrovato solo cinque giorni dopo: il cadavere gonfio d’acqua era stato spinto dalla corrente del Mississipi fino all’altezza di Beale Street, cuore musicale di Memphis.

È stato il caso, a portarlo lì anche da morto, oppure il destino? Era scritto, che Jeff dovesse andarsene intorno ai trent’anni come il padre assente Tim, anche lui cantautore? È stata una premonizione, a ispirare a Jeff l’ultima riga dell’ultima canzone (Dream brother) del suo ultimo disco da vivo, che recitava «Asleep in the sand / With the ocean washing over»?

Come sempre in questi casi, è una questione di punti di vista: ognuno crede a quello che preferisce, e va bene così. Quello che rimane è la musica: forse altrettanto sfuggente nella sua interpretazione, però fonte di verità incontrovertibili.

Ed è indiscutibile che Grace sia un capolavoro degli anni Novanta, primo e ultimo album di Jeff Buckley, coronamento di una lunga gavetta per un giovane cantautore, trampolino di lancio verso quella che potenzialmente poteva essere la carriera di un nuovo Springsteen, o Dylan. Un paragone che sta in piedi non tanto per affinità musicali (che pure ci sono, in quantità), ma anche per la scelta di firmare con la Columbia Records, ultima major a offrire un contratto a Jeff dopo che il ragazzo era diventato una piccola leggenda della scena musicale newyorchese, suonando regolarmente in diversi bar e caffè dell’East Village, in serate che mescolavano canzoni scritte da lui e cover dei suoi artisti preferiti, dallo stesso Bob Dylan ai Led Zeppelin, a Edith Piaf e Leonard Cohen (su quest’ultimo sarà il caso di ritornare più sotto). Jeff aveva creato hype – anche se ai tempi la parola non esisteva, fortunatamente – nel modo migliore, e tra i fan che si affollavano sotto i suoi palchi c’erano tra gli altri Chris Cornell dei Soundgarden e The Edge degli U2. Era anche bello, e amava raccontare storie romanticamente tragiche sulla sua vita, il che non guastava. La Columbia aveva diversi motivi per puntare su di lui, ma certo sapeva di non avere davanti un artista che puntava al successo pop, come dimostrato anche dal fatto che le sue canzoni erano ben più lunghe dei canonici tre minuti buoni per l’airplay radiofonico, con una media ben superiore ai cinque.

Infatti, Grace vendette meno di 200’000 copie alla pubblicazione, ma nonostante questo ricevette grande sostegno da parte dei colleghi musicisti: Jimmy Page lo definì il suo album preferito del decennio, ma si espressero a favore di Buckley anche David Bowie, Patti Smith, PJ Harvey, Lou Reed e lo stesso Bob Dylan. Jeff divenne una star, e anche se era meno famoso di molti dei suoi fan musicisti, riuscì a mettere in piedi un tour di due anni, che lo portò in giro per il mondo, compresa una serata all’Olympia di Parigi trasformata poi in meraviglioso disco postumo nel 2001.

Cosa ci trovavano, tutti quei grandi artisti, dentro Grace?
Sicuramente una grande varietà musicale, e una dimostrazione di prodigiosa potenza vocale: Jeff canticchia, ringhia, grida, sussurra, e naturalmente fa ampio uso del suo paradisiaco falsetto. Sembra ispirato da una moltitudine di tradizioni diverse, dal canto Sufi al gospel, che riesce a sintetizzare con – perdonate il gioco di parole – incredibile grazia. Come ha scritto la professoressa Daphne Brooks, autrice di un saggio monografico su Grace, Buckley aveva riportato al centro della scena «l’uso immaginifico della voce nel canto rock maschile». E in effetti, lo stesso Jeff teorizzava l’inseparabilità tra testo e colore vocale: era quest’ultimo, soprattutto, a trasmettere l’intensità emotiva di una canzone. La voce era sempre messa in stretta relazione con la parte di chitarra, in un dialogo continuo, e la scrittura musicale più in generale ne seguiva le fluttuazioni, passando da momenti di grande tranquillità a esplosioni rock. Non stupisce che alcuni dei più grandi artisti degli anni successivi si considerino figli di Jeff Buckley, da Chris Martin a Thom Yorke. Come loro, più di loro, Buckley riusciva a risultare estremamente raffinato, romantico fino al melodrammatico, eppure allo stesso tempo crudo e autentico. Un piccolo miracolo, e buona fortuna a chi volesse riprodurlo con i software.

Nessun discorso su Grace sarebbe completo – non che questa paginetta lo sia, per carità – senza parlare della canzone più nota di quell’album: ironia della sorte, è una cover, e uno dei pezzi più equivocati del pop, diventato perfino una canzone di Natale.
Hallelujah nella versione originale di Leonard Cohen era una nenia cantata su un ritmo di valzer storto, con il classico accompagnamento corale amato dal cantautore canadese. La cover di John Cale, registrata nel 1991 per l’album tributo a Cohen I’m Your Fan, era più drammatica, priva del coro e delle ultime due strofe, accompagnata dal pianoforte: fu quella, la versione che ispirò Buckley durante i suoi giorni all’East Village. Jeff usò il fingerpicking e il riverbero per ricreare – alla faccia di chi l’avrebbe trovato didascalico – un’atmosfera da cerimonia religiosa, caricando ogni parola di emotività, e facendo una selezione delle molte diverse strofe che Cohen aveva usato per la canzone nel corso degli anni. Infine, più di un minuto e mezzo di coda, per ripetere ossessivamente quella parola, «Hallelujah», in un crescendo drammatico, alla disperata ricerca di una qualche rivelazione esistenziale.
Nel 2024 anche il più sfegatato fan di Leonard Cohen ammetterebbe che quella cover sia enormemente più popolare dell’originale. Ma è solo uno dei tanti motivi per cui l’eredità di Jeff Buckley è, ancora oggi, immensa.

"Your Uncle"

Tenera è la notte 28.08.2023, 00:25

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