C’è un paradosso sbalorditivo nella storia di Jimi Hendrix. La sua vera vita artistica durò solo quattro anni, dall’autunno 1966, quando fu scoperto nella scena minore di New York e portato al successo in Inghilterra, fino al settembre 1970, quando morì; eppure, in un lasso di tempo tanto breve si è accumulato un immenso tesoro di registrazioni, un monumentale archivio che a distanza di più di mezzo secolo continua a dare frutti. Hendrix era innamorato e ossessionato dalla musica, sentiva, vedeva i suoni sinesteticamente e li dipingeva in sala di registrazione, sforzandosi di essere il più possibile preciso, provando e riprovando. Suonare era per lui come respirare, era gioia e vita; e i dischi, i tour non bastavano, la sua inseparabile chitarra era sempre pronta per improvvisate jams che potevano capitare in qualsiasi momento, in un club, a casa di amici, in uno studio affittato sul momento.
Questa smania di musica diventò con il tempo un problema, quando il management di Jimi si trovò a pagare centinaia di migliaia di dollari per quelle improvvisate jams e per le sessions ufficiali che non finivano mai. Occorreva trovare un rimedio e la soluzione fu rilevare un vecchio club al 52 di West 8th Street a New York, che si era convertito al nuovo rock con il nome di Generation e dove Hendrix aveva spesso suonato. Rilevate le mura, in quegli spazi fu costruito uno studio tutto per Jimi, assecondando i suoi desideri in tema di tecnologia, acustica, illuminazione, architettura; uno spazio agevole e rilassante per fare musica in piena libertà. Il nome scelto richiamava il suo disco più recente ed era tutto un programma: Electric Lady Studios.
Sembrava un sogno, fu uno scherzo del destino - uno scherzo crudele. Jimi si rifugiò tra quelle mura quando ancora i lavori erano in corso e per tutta l’estate 1970 sfogò le idee che aveva in testa per il quinto LP della sua discografia, il seguito effettivo di Electric Ladyland. Il 24 agosto con il tecnico del suono di fiducia, Eddie Kramer, lavorò per l’ultima volta missando quattro pezzi pronti per la pubblicazione. Il 26 diede una grande festa d’inaugurazione, poi partì per l’Europa, dove lo attendevano un paio di festival, a cominciare dall’isola di Wight. Morì tre settimane dopo, a Londra, nelle circostanze tristi e misteriose di cui si è tanto chiacchierato. Non avrebbe mai più rivisto New York, non avrebbe mai effettivamente suonato nel parco giochi di musica che con tanto amore si era costruito.
Il monumentale archivio hendrixiano continua a dare frutti, dicevamo, e l’ultimo di questi giorni, Electric Lady Studios: A Jimi Hendrix Vision, racconta proprio l’ultima estate di Jimi nel nuovo studio tutto suo e le prove accanite, infinite per quel quinto LP mai completato. È un box che contiene un documentario sulla nascita dello studio, 39 brani in CD, un Blu Ray con 20 pezzi remixati in surround 5.1 e un libretto con note esplicative. I brani sono quasi tutti in versione inedita, alternate takes e mix mai ascoltati prima, anche se le canzoni sono ben note; è dal 1971 che i curatori cercano di comporre il puzzle di quell’album indefinito che non aveva ancora un titolo certo, con brani venuti alla luce su vari LP, non senza dubbi e polemiche per discutibili manipolazioni. Questo box è il tentativo più serio e ordinato di sistemare quel materiale, in parte affiorato già poco dopo la morte di Jimi negli album
Cry Of Love e Rainbow Bridge e documentato poi nell’era digitale dai CD di Voodoo Soup e First Rays Of The New Rising (il titolo oggi accreditato come il più vicino ai desideri di Hendrix).
Jimi suona con Billy Cox al basso e Mitch Mitchell alla batteria, e sfoga i suoi slanci, ansie, paure in una serie di brani che hanno perso l’innocenza psichedelica degli esordi ma rivelano ancora genio e fantasia, in una spasmodica ricerca di un collegamento fra il blues delle radici e il funk della nuova musica afroamericana anni ‘70. Brani spinosi e nervosi come Dolly Dagger e Astro Man, visionari come Room Full Of Mirrors (da mesi proposta in concerto in versioni sempre diverse), disperatamente intricati come il lungo medley che per quasi mezz’ora unisce Astro Man / Beginnings / Hey Baby (New Rising Sun) / Midnight Lightning (Keep On Groovin’) / Freedom; ma anche momenti più meditati, quieti, come la dolcissima Angel che tanto piacerà un giorno a Gil Evans, o come Hey Baby, Drifting o la meravigliosa Pali Gap, dove si coglie la grandezza di Jimi anche come chitarrista minimale, intimo, senza fuochi d’artificio.
L’ultima canzone composta e registrata in vita da Jimi Hendrix fu Belly Button Window, una di quelle mixate nella seduta del 24 agosto. Un sinuoso swing che riecheggiava i blues arcaici con le parole di un bambino sul punto di nascere, che scruta il mondo dall’ombelico e ha il sospetto di non essere bene accolto. “Vedo un sacco di sguardi accigliati”, si lamenta, e allora, se le cose stanno così, “sarò felice di tornare nella terra degli spiriti/e anche di prendermi un riposo più lungo/ prima di rifarmi vivo”. Che strane parole per un’ultima, inconsapevole volta, quasi una premonizione.