Musica pop

La Yellow Brick Road? Comincia a Kingston

Elton John e la strana, falsa partenza giamaicana del magico doppio album del 1973, che compie 50 anni

  • 5 ottobre 2023, 11:10
  • 6 ottobre 2023, 10:31
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Di: Michele R. Serra

Kingston nel 1973? Pare non fosse affatto male, soprattutto se vista dalla suite di un hotel di lusso come il Flamingo. “Per una vacanza perfetta, il Flamingo riempie le vostre giornate di divertimento, e le vostre notti di amore…” si legge nelle brochure d’epoca (consultabili tramite il meraviglioso archivio di jamaicahotelhistory.com). Ma si sa, non bisogna credere alla pubblicità.
Elton John l’avrebbe imparato a sue spese, proprio mentre stava realizzando il disco che gli avrebbe dato imperitura fama, e che compie cinquant’anni in questo 5 ottobre. Intendiamoci, non che prima di Goodbye Yellow Brick Road le cose andassero male: l’album precedente, Don’t Shoot Me I’m Only the Piano Player, pubblicato nove mesi prima, era diventato il suo primo numero uno nel Regno Unito, mentre i suoi concerti stavano ottenendo recensioni entusiastiche su entrambe le sponde dell’Atlantico. Non era ancora l’Elton John degli eccessi che avremmo imparato a conoscere: non aveva mai toccato cocaina (se non, pare, quella volta che gliel’avevano mescolata alla cena nel 1970), e i suoi abiti erano senza dubbio eccentrici, ma ancora non si vestiva abitualmente da Muppet.

In fondo, aveva solo 25 anni – un paio in più di Stevie Wonder, forse l’unico artista solista al mondo che oggi possiamo dire sia stato più prolifico, per quantità e qualità, nella decade in cui i giganti del pop e del rock dominavano il mondo. Per il suo settimo disco in quattro anni, il ragazzo nato Reginald Dwight stava provando a fare le cose in grande. Aveva costruito un gruppo di musicisti fidati che l’avevano aiutato a trovare i primi grandi successi: Davey Johnstone alla chitarra, Dee Murray al basso e Nigel Olsson alla batteria. Aveva cementato il rapporto artistico con Bernie Taupin, i cui testi erano l’indispensabile combustibile capace di mettere in moto il genio musicale di Elton John, per stessa ammissione di quest’ultimo (“Tutto nasceva da lui. Tutte le canzoni - il tempo, il modo in cui suonavano, che tipo di suono avrebbero avuto - erano determinate dai testi”). Aveva conosciuto, e in alcuni casi perfino fatto amicizia, con i suoi idoli musicali (“Non avevo mai pensato davvero di diventare una star. È successo così rapidamente e così… stupidamente. All’improvviso, di botto, mi sono trovato nella stessa stanza con George Harrison. Non potevo crederci”). Aveva comprato un sacco di vestiti nuovi. E aveva pensato di cambiare aria, per trovare ispirazione in un luogo meno familiare dello Château d’Hérouville, dimora bucolica nelle vicinanze di Parigi che aveva ospitato la lavorazione dei due dischi precedenti (a partire ovviamente da Honky Château). Così, eccoci alla Giamaica.

Visto che i Rolling Stones avevano appena registrato Goats Head Soup sull’isola, Elton John pensava di poter trovare la stessa aria che aveva aiutato i colleghi. Ma si sbagliava. O meglio: forse fu solo una questione di errori di calcolo.
Il primo fu quello di arrivare a Kingston il giorno dopo lo svolgimento del match tra George Foreman e Joe Frazier, che aveva catalizzato l’attenzione di mezzo mondo e fatto impazzire la Giamaica: l’isola era piena da scoppiare, i servizi erano andati in tilt e il caos generale creava terreno fertile per la microcriminalità, con piccole rapine e truffe all’ordine del giorno. Elton era spaventato, quasi non usciva dalla sua stanza, e il suo umore non migliorò certo quando vide lo studio di registrazione che era stato approntato per lui: filo spinato e guardie armate all’ingresso, strumentazione scarsa (“C’era un solo microfono”) e di scarsa qualità. Oh, e naturalmente gli scarafaggi.
I membri della band avevano trovato conforto nel consumo di ganja locale, ma questo non aveva aiutato granché, almeno stando ai racconti di Davey Johnston (“Andavamo a suonare senza sentire le gambe”). Musicisti e produttore – il mai troppo ricordato Gus Dudgeon, responsabile tra le altre cosette anche di Space Oddity di David Bowie – tornarono a New York, e poi in Europa, con solo una registrazione di Saturday Night’s Alright For Fighting, che sempre secondo Johnston “suonava come una canzone dei Chipmunks: senza palle”. Ma nessuno, secondo le testimonianze, era davvero proccupato. Perché, semplicemente, la forza creativa del team Elton+Bernie sembrava capace di sollevare il mondo. E così fu, in effetti.

Una volta tornati al vecchio Château, infatti, nel breve giro di tre settimane presero forma concreta 19 canzoni: l’album era diventato un doppio album. Magari non un concept album fortemente unitario come altri dell’epoca, ma senza dubbio una pietra su cui fondare un incredibile futuro musicale.
Il pubblico e la critica risposero in modo entusiasta: più di trenta milioni di copie vendute, otto settimane in vetta alla classifica USA, due a quella inglese – e non c’è bisogno di ricordare che la concorrenza non era composta da Ed Sheeran e Taylor Swift, ma da gente come Stevie Wonder (Innervisions), David Bowie (Aladdin Sane), Who (Quadrophenia), Marvin Gaye (Let’s Get It On) e Pink Floyd (The Dark Side Of The Moon). Oltre che, naturalmente, da Bob Marley e dagli Wailers, che avevano portato alle orecchie degli inglesi (e di Elton John di conseguenza) il fascino del reggae. Senza Marley, probabilmente, Goodbye Yellow Brick Road non avrebbe avuto la sua falsa partenza, e neanche il reggae pop di Jamaica Jerk-Off, una delle tante perle contenute nell’album e messe in ombra dalla forza dei singoli più famosi, a partire dalla title-track.
A proposito di singoli, oltre a sottolineare l’eleganza senza tempo di Candle In The Wind e il riff trascinante della già citata Saturday Night’s Alright For Fighting, vale la pena ricordare che il primo successo fu merito di un manager della MCA americana, Pat Pinolo, che propose Bennie And The Jets come singolo di lancio, vincendo prima la sorpresa e poi la netta contrarietà della band e dello stesso Elton John, che avrebbe voluto presentare per prima Candle In The Wind. Invece quel pezzo allo stesso tempo ironico e drammatico, pieno di groove, che raccontava il futuro del glam attraverso l’idea di una band di cyborg agghindati di stivali elettrici e completi in mohair, beh, spaccò le classifiche. Tanto per dire che, nonostante quel che si dice in giro, non sempre i discografici sono sordi e miopi.
… Anche se, certo, quando hai a disposizione oro del genere, vincere è più facile.

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RSI 09.10.2019, 22:55

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