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Margini: Italian Street Punk al cinema

Arriva nelle sale del canton Ticino il film di Niccolò Falsetti che racconta la scena hardcore della provincia italiana nei Duemila

  • 01.01.2024, 14:00
  • 01.01.2024, 23:19
MARGINI_Film
  • Ph. Francesco Rossi
Di: Michele R. Serra 

Un gruppo di amici a Grosseto, Toscana, costa occidentale della Penisola. Hanno un gruppo street punk, vite disordinate, non hanno un soldo, amano la musica. Decidono di organizzare un concerto proprio dalle loro parti, riescono a scritturare un importante gruppo hardcore americano. Ma l’impresa rischia di essere più grande di loro.
È una commedia, Margini, il film del regista toscano Niccolò Falsetti presentato nella selezione Settimana della critica all’ultima mostra del cinema di Venezia e arrivato nelle sale ticinesi questa settimana (per ora al Rialto di Locarno e al Lux di Massagno). Un film genuinamente divertente. E un film per tutti, che parla di amicizia, ideali più o meno giovanili, rapporti tra le persone, passioni divoranti.
Però – a chi interessa – Margini racconta anche la nicchia ecologica del punk italiano fuori dalle città, che nei Duemila era più indie dell’indie, e non è mai diventato mainstream, come invece (tanto per fare un esempio a caso) è successo al rap. Una scena musicale tanto significativa quanto spiantata, politicamente militante, fuori dalle mappe del grande pubblico. Un piccolo universo di meravigliosi perdenti di provincia. Che è anche il tema da cui siamo partiti, nella chiacchierata con Falsetti e con Francesco Turbanti, attore protagonista, co-sceneggiatore del film e punk OG di Grosseto.

Dunque, è vero che la Provincia rimane dentro?
Niccolò Falsetti: Avoglia! Diciamo che se dovessi riassumere l’evoluzione del concept iniziale di Margini, è diventato proprio questo: puoi togliere il ragazzo dalla provincia, ma non puoi togliere la provincia da dentro di lui, nel senso che quello che ci portiamo dietro noi da “espatriati” della provincia è quello. E la nostra provincia è il mondo intero, se vogliamo parafrasare Pietro Gori.
Credo poi che l’Italia sia un paesone di provincia, o di province. Certo, abbiamo le grandi città d’arte, però non sono grandi città, non sono metropoli. A parte Roma e Milano, che una scena ce l’hanno sicuramente, Napoli… C’è qualcosa a Torino, ma per il resto le nostre grandi città – Bologna, Firenze, Genova, eccetera – alla fine di metropolitano hanno poco, in senso di massa, di quantità di persone, di tutti quegli elementi che fanno davvero di una città una città e non un paese di provincia. Se guardiamo i numeri, il grosso della popolazione vive da altre parti rispetto alle città, però sembra impossibile pensare di non essere per forza di Roma, Milano, Torino, Napoli, Palermo… invece si può anche essere di Busto Arsizio o di Grosseto, e avere il nostro immaginario, il nostro spazio, la nostra cosa. Ed è una cosa che non ti lascia mai.
Francesco Turbanti: Riguardo a questa cosa della Provincia che ti si attacca addosso, e al titolo… volevo citare un gruppo, che per noi sono amici, e che non possiamo non citare se parliamo del titolo.
NF: Certo, giusto!
FT: Sono gli Ultimi, un gruppo che viene da una provincia simile alla nostra, ma diversa, perché vengono da Bracciano, vicino Roma… alcuni poi sono di Manziana, Anguillara, Vaiano… li cito perché noi abbiamo saccheggiato il titolo di una loro canzone, che si chiama Ai margini. Nel titolo poi a noi è rimasto solo “margini”, ma la canzone parla proprio di questa roba qua, anzi forse abbiamo trovato proprio dentro quella canzone l’incipit del ragionamento, quando abbiamo incominciato a pensare a un film sulla Provincia: volevamo fare un film come gli Ultimi hanno fatto una canzone, e se la canzone si chiama Ai margini, perché non chiamare il film Margini?
Tornando invece a questa idea della Provincia che ti si attacca addosso, sempre loro hanno un’altra canzone, che è un po un B-side, non non la fanno più ai concerti… comunque, si chiama Ultimi inguaribili romantici. E in effetti in qualche modo c’è del romanticismo dietro questa questa idea, e bisogna starci attenti, noi provinciali! Perché poi capita che ci perdiamo dentro questa cosa… Invece speriamo che questo romanticismo nel film sia arrivato, ma appunto in un modo un po’ crudo… calore dentro la crudezza, ecco.

Il fatto che il punk sia una nicchia che non è arrivata al mainstream può essere un vantaggio, quando si tratta di raccontarlo? 
NF: Guarda, intanto, da autore, ti stimola: per noi era automatico non essere superficiali, cercare di andare nel dettaglio… proprio per la consapevolezza del fatto è una roba di pochi per pochi. È una responsabilità che c’hanno gli autori, quella di rapportarsi all’immaginario del pubblico e capire appunto che cosa c’ha in testa, il pubblico. Se ti dico punk, tu cosa pensi? Magari non stiamo parlando della stessa cosa, quindi ti devo fare delle premesse, una sorta di accompagnamento verso questa cosa che sto raccontando. 
FT: E noi comunque abbiamo cercato di andare incontro anche a immaginari diversi… Per esempio, è capitato che signore di una certa età ci dicessero cose tipo: «ma io pensavo che i punk fossero tutti drogati».
NF: Signora… molti sì, in effetti!
FT: Molti, sì [ride]. Però, dico… se qualcuno vomita nel corso del film, non è per il disagio che poteva pensare la signora, ma semplicemente perché sta male.
NF: Diciamo che siamo stati costretti a stare super attenti all’autenticità, perché poi noi siamo particolarmente stronzi – nel senso che, non solo facciamo una roba sul punk girata nel 2021, 2022, cioè già quando il punk in generale non se lo cagava più nessuno, ma noi siamo andati a fare il punk di provincia, per cui anche per molti punk non era una dimensione completamente conosciuta. Cioè, per una parte dei ragazzi di Roma o di Torino, di Milano, di Bologna… non tutti hanno detto – giustamente e comprensibilmente – «mi rivedo in questa roba», però ci sono delle dinamiche interne al gruppo, ai personaggi, in cui tutti si riuscivano a rivedere, in qualche modo. E questo ce lo portiamo a casa, perché poi quando promuovi un film e lo porti in giro, passi dal tuo punto di vista da dentro la bolla al capire davvero le percezioni del pubblico. Insomma, abbiamo cercato di tenere molto alta l’asticella dell’attenzione sull’autenticità, sull’essere rispettosi dell’identità di quello che andavamo a raccontare, del non darlo per scontato per il pubblico, e nemmeno per il pubblico che veniva dalla scena punk hardcore.
Poi c’era un’ulteriore insidia, che è quello che il buon Zerocalcare ha raccontato chiamandola il mostro dell’ortodossia, e cioè il fatto che noi ci rapportiamo con l’ambiente militante, e a volte quello è un mondo che tende alla semplificazione. Tutti tendiamo alla semplificazione, ma narrativamente –  questo è il paradosso – tu hai bisogno di far esplodere le complessità, le contraddizioni. Invece politicamente, a livello di militanza, hai bisogno di semplificare, di divulgare, eh. E quindi a volte ti trovi ad avere a che fare con un mondo che cerca di ragionare molto con l’accetta, perché ha bisogno di immediatezza e di impatto comunicativo. Quindi a volte è un mondo che gira con i paraocchi. Già il fatto di fare un film sul punk innesca un meccanismo per cui il mondo “militante” un po’ si oppone, c’è una resistenza difficile da vincere, una fiducia che uno deve deve essere in grado di potersi meritare… intendiamoci però, non è un caso, perché quando il mainstream ha messo le mani nell’underground ha sempre fatto casino, ha rovinato tante cose belle, spontanee, naturali, e quindi le persone che le hanno viste nascere e morire tra le loro mani, a volte tendono a difendersi, arroccandosi negli spazi che hanno occupato.

Margini Locandina

Arriviamo a Zerocalcare, che compare nel film, come i suoi disegni. E noi sappiamo bene che le sue radici di artista affondano nel movimento punk. Ma è arrivato prima il film o l’amicizia, con lui?
FT: Dunque, come dire… il fatto è che noi veniamo dalla stessa tribù, dalla stessa scena. E l’amicizia è arrivata proprio con il film, perché prima ci conoscevamo, ma così… ci vedevamo agli stessi concerti, e lui comunque non era Zerocalcare famoso per tutti, era prima della Profezia dell’armadillo, e lui era “quello di Roma”, come diciamo nel film, che faceva le locandine dei concerti, le copertine dei dischi, eccetera. L’amicizia, dicevo, nasce poi nel momento in cui abbiamo pensato a questo film. Ma il fatto è che ci abbiamo messo veramente tanti anni, sette da quando abbiamo incontrato i produttori, ma considerando da quando ci ronzava nella testa, forse addirittura una decina… Comunque, quando abbiamo incominciato a pensare a un film che parlasse di punk, ci siamo subito detti «beh, come come i concerti punk hanno hanno la firma di Zerocalcare, anche il nostro film deve avere la firma di Zerocalcare». E infatti la locandina del film è come fosse su un muro, mezza strappata.
L’amicizia invece nasce come lui l’ha raccontata anche in una striscia: praticamente noi a un certo punto l’abbiamo beccato grazie a un giro di amici di amici, ci siamo visti al Forte Prenestino a Roma, gli abbiamo raccontato il progetto, e lui si è fomentato… credo disse una cosa come «sto in fissa» proprio… Però poi, ogni volta che ci rivedevamo, magari a qualche concerto, gli dovevamo dire sempre roba tipo «No, guarda… ora c’abbiamo un attimo un problema, però siamo lì lì, eh! … si cambia un attimo la sceneggiatura, e ci siamo… No scusa, abbiamo un problema con il ministero… E poi c’è la pandemia, Michele, la pandemia!» In pratica, a un certo punto lui penso ci abbia anche preso per dei mitomani. Però invece alla fine siamo riusciti a farlo! Adesso quando ci incontriamo ai concerti, l’incontro è più sereno, diciamo…

Niccolò, prima facevi riferimento al fatto che il mainstream “rovina” le cose. Si può dire che Margini racconti in qualche modo anche come la purezza artistica assoluta sia stata una delle ultime illusioni che sono evaporate con l’inizio del XXI secolo? Oggi quando si parla di musica si parte sempre dal numeretto: se vendi dischi, se hai gente ai live, se hai milioni di streaming, se hai un sacco di follower. Anche il giornalismo musicale ormai parte spesso da questi dati, che riflettono però un passaggio epocale nel modo di considerare la musica. Cioè, un tempo vendere era un fatto quasi negativo, per un musicista…
NF: Dunque, premesso che in questa fase della mia vita sono molto drastico sul fatto che la sostenibilità delle delle operazioni artistiche sia una delle cose più importanti… Io credo diventi preoccupante quando i numeri diventano l’unico fattore che conta. Può succedere che un buon disco non venda abbastanza, può succedere che un buon film non venga visto abbastanza. In questo momento in sala, per esempio, c’è una diatriba distributiva tra La chimera di Alice Rohrwacher e C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Il secondo è un film che sta incassando tantissimo, ed è realizzato con tutti i crismi per essere una commedia di un certo livello. Il primo è un film decisamente autoriale.
Ecco io, da amante del cinema – ma il discorso lo riporto anche sulla musica –  io voglio, esigo da spettatore che esistano questi due film, che ci sia un sistema equilibrato che ti rende possibile vedere al cinema entrambi i film, farli coesistere.
Credo che lo stesso discorso si possa applicare all’industria musicale. Mi sembra manchino un po’gli attori dell’industria musicale e culturale in generale, che riescano a fare questo tipo di operazioni, che riescano a vendere prodotti con una vocazione al marketing più diretta, ma al contempo tengano viva la voglia di fare musica diversa, di sperimentare, di mettersi in discussione, di far fare ai musicisti bravi – uso una parolaccia – un po’ il cazzo che pare a loro.
Insomma, la pluralità di voci è molto importante. La varietà fa bene.
Personalmente ho voglia andare ai concerti, a sentire gruppi che dici «Madonna, sono forti questi! » anche se magari tu non suoneresti mai quel genere lì, perché non è il mio gruppo, non siamo noi, non è il nostro suono, non è la nostra voce… Ma che bomba, sentirli!

La questione dei numeri poi a volte anche comunque una questione di percezione. Nel film a un certo punto i protagonisti riescono a invitare una importante band hardcore americana nella loro piccola città. Però in realtà ai tempi molte di queste band indipendenti americane, inglesi, che a noi sembravano enormi… in realtà a volte veniva fuori che facevano concerti di fronte a 50 persone, a casa loro.
FT: Dunque, premesso che sia io che Niccolò siamo stati un po’ a Londra, e abbiamo visto dei concerti storici, e lì di gente ce n’era… è anche vero che nel film questa cosa un po’ la raccontiamo, di queste grandi “star” dell’hardcore punk che alla fine davvero venivano per farsi invitare a mangiare dalla nonna dei nostri amici.
La band del film, i Defense, non esiste, ma nel 2008 al campo sportivo di Roselle, che è una frazione di Grosseto, sono venuti a suonare i Madball, che sono effettivamente un gruppo di New York molto importante. E loro vennero qua e si fecero invitare a mangiare i tortelli dalla nonna del Ciccio…
Poi ci sono altre storie, di quando abbiamo incominciato a scoprire questo tipo di musica, questo tipo di scena, io mi ricordo una trasferta quando avevamo tutti 14 anni o giù di lì, a Pisa a vedere gli Statuto, da Torino, gruppo che faceva davvero il primo ska in Italia… io, Nico e gli altri della nostra banda arrivati lì ore prima col pranzo al sacco pensando di fare a spallate per entrare in un raduno mod pieno di specchietti. Invece quando siamo arrivati non c’era alcun tipo di ressa, ma una ventina di persone più o meno attempate che si ascoltano È tornato Garibaldi.

Il film riesce a mettere in luce molto bene quel distacco dalla realtà che sperimenti quando sei impegnato in un progetto musicale che sembra gigantesco, però, in realtà, non lo è. Quanto è importante, se suoni in una piccola band, imparare a guardarsi anche con autoironia?
FT: Assolutamente, ma il senso della realtà è importante anche come sprone per superare il limite. Tornando al titolo del film: hai dei limiti – musicali –, hai dei margini, se lo capisci è il momento giusto per oltrepassarlo, quel margine. La Provincia ti costringe a renderti conto che stai non al centro delle cose, ti impone un processo di consapevolezza. Per forza, poi, hai uno slancio diverso.

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