Aveva già un peso sulle spalle, Memento mori, prima dello scorso 26 maggio. C’era la cupezza del periodo pandemico appena trascorso, la malinconia di un momento storico senza certezze. Poi però Memento mori è diventato l’album del cuore spezzato, per i Depeche Mode. Non è solo un modo di dire: Andy Fletcher è morto proprio per la rottura (i medici giustamente diranno dissezione, che è un po’ diverso, ma la sostanza cambia poco) della più importante arteria del corpo, all’improvviso, nella sua casa di Londra. Il titolo del nuovo album c’era già, le atmosfere c’erano già, la musica era nella testa di Martin Gore e Dave Gahan. Eppure la morte di Fletcher ha messo tutto in discussione, compresa l’esistenza stessa dei Depeche Mode, almeno nella forma di musicisti capaci di sfornare materiale inedito.
Certo, Fletcher da tempo non aveva molto peso, nella direzione musicale della band: lo stesso Gahan amava dire di lui “Non so che cosa c*** faccia, ma è importante”. Fletcher era, in effetti, la roccia a cui la band rimaneva aggrappata mentre intorno si consumavano sconvolgimenti, a cominciare dalle dipendenze di Gore (alcool) e Gahan (eroina). Era quello che amava la parte creativa dei Depeche Mode che andava oltre la musica, quello che faceva girare un meccanismo che senza la sua presenza avrebbe potuto incepparsi. Un ruolo, appunto, importante.
Eppure il primo disco senza di lui è forse il più riuscito degli ultimi vent’anni, per i Depeche Mode (a meno che tutti noi non siamo stati sopraffatti e ingannati dall’emozione, nell’ascoltarlo). Non perché la sua assenza abbia alleggerito il flusso creativo tra Gore e Gahan, ma forse li ha costretti a lavorare insieme come non facevano da tempo, a conoscersi di nuovo. “Diventare amici”, ha sintetizzato Dave Gahan in un’intervista alla rivista britannica Mojo, senza poter evitare di sottolineare quanto la cosa suonasse ridicola, dopo aver passato quarant’anni insieme. Ma forse i membri dei gruppi di grande successo (nel caso dei Depeche Mode, possiamo pure dire: grandissimo) vivono di quella strana relazione che prevede di conoscersi incredibilmente a fondo, e allo stesso tempo mai completamente. Quarant’anni di carriera, non c’è bisogno di dirlo, sono lunghi. Ora i Depeche Mode sono un duo, e sembrano aver messo da parte le rivalità artistiche interne. Chissà come sarebbe stato Memento mori con Fletcher presente. Non lo sapremo mai.
Quello che sappiamo è che abbiamo davanti un album dark, elettronico, sospeso tra speranza e nichilismo: un album, verrebbe da dire, quintessenzialmente Depeche Mode.
E dentro c’è una canzone co-firmata da Gahan e Gore, Wagging tongue, che fin dal primo ascolto possiamo catalogare tra gli episodi migliori. Anche Wagging tongue parla di morte, purtroppo: è stata scritta dopo la notizia di quella di Mark Lanegan, amico di Gahan da tempo. Eppure il senso di quel pezzo, e dell’intero disco – un corpo unitario, senza per questo diventare concept album – sembra risiedere più in un’idea di rinnovamento continuo, di spinta verso il futuro e verso la vita, nonostante tutto: “You won't do well to darken me / With your secrets and your lies / With your piercing code of silence / Relax, enjoy the ride”. O forse, anche in questo caso è una mia idea consolatoria. Il bello di testi del genere è che in fondo non è difficile, per chi ascolta, proiettarci sopra emozioni personali. E così, anche Soul with me può diventare un percorso di accettazione e pacificazione: “I see the beauty / As the leaves start falling”, cantato da chi ha superato i sessanta, fa più effetto che dai membri di una band di ventenni. A corroborare l’ipotesi di una lettura positiva ci ha pensato del resto lo stesso Martin Gore, dichiarando che il titolo Memento mori deve essere intepretato come un “goditi la vita, finché puoi”.
Anche perché la vita offre sempre nuovi spunti e nuovi incontri. Nel caso dei Depeche Mode, quello più importante per Memento mori è stato senza dubbio con Richard Butler, cantante dei Psychedelic Furs, amico di Martin Gore da molto tempo, e co-autore insieme a quest’ultimo di un terzo dei pezzi finiti nel disco, tra i quali la splendida Ghosts again, non a caso scelta come singolo di lancio con la benedizione di Dave Gahan. Butler non è certo un sostituto – Gore e Fletcher erano cresciuti insieme sin da bambini – ma senza dubbio un amico capace di dare quel piccolo aiuto che nel pop inglese è proverbiale sin dal 1967.
Il risultato è, come detto, tra le migliori produzioni della carriera dei Depeche Mode, ennesima prova del fatto che – come ha giustamente notato Pitchfork – “raramente i Depeche Mode sono stati imbarazzanti. Certo, sono a un quarto di secolo di distanza dalle loro ultime mega hit, ma non hanno mai accettato i compiti più umilianti della vecchiaia musicale: navi da crociera, fiera, tour in cui riproporre album completi. Sono sopravvissuti a dipendenze, abbandoni, quasi morte e, ora, alla morte stessa, senza mai fare un disco veramente terribile, senza inseguire tendenze che non gli appartengono.” Negli anni Venti dei Duemila i Depeche Mode non possono più essere una rivoluzione musicale, certo. Ma possono ancora essere sé stessi, nonostante tutto. Nel loro caso, non è poco.
Michele R. Serra