Nel Maggio 1966, Brian Wilson e il paroliere/musicista/arrangiatore Van Dyke Parks (si erano conosciuti grazie al comune amico David Crosby) avevano cominciato a scrivere l’album che avrebbe dovuto chiamarsi prima Dumb Angel e poi Smile. Nei quasi quarant’anni successivi, sarebbe diventato l’ultimo Graal del pop americano: tanto desiderato quanto sfuggente. Fino a un insperato lieto fine, arrivato il 20 febbraio 2004 alla Royal Festival Hall di Londra, quando tremila persone avrebbero tributato una standing ovation di dieci minuti ai due autori di Smile, eseguito in pubblico per la prima volta quella stessa sera. Tra il pubblico adorante, George Martin e Paul McCartney, a chiudere il cerchio con l’epoca in cui Brian Wilson era considerato l’unico capace di scrivere musica all’altezza di quella dei Beatles. Mancava solo il disco, che sarebbe stato distribuito il 28 settembre dello stesso anno.
Le recensioni entusiaste che seguirono la pubblicazione di Brian Wilson Presents Smile (erano, i primi Duemila, gli ultimi anni in cui gli scritti di critici e giornalisti musicali interessavano a qualcuno), a dirla tutta forse erano entusiaste più del fatto che quella musica semplicemente esistesse, che non della sua qualità – tutt’altro che bassa, beninteso. Ma un’ondata di emotività positiva (oggi si direbbe: sentiment) era inevitabile, visto che quella serata appariva come la perfetta, cinematografica conclusione del film di Brian Wilson e dei Beach Boys. Il soggetto, in due frasi: un genio scrive canzoni allegre che nascondono infinita tristezza; la sua vita è come la sua musica.
Volendo fare un riassunto appena meno stringato: nel 1966, Brian Wilson era il Genio, autore e produttore discografico più stimato ai due lati dell’Atlantico, innovatore instancabile, l’uomo capace di comporre musica pop degna di Bach o Mozart (che in fondo, si sa, erano i Brian Wilson del Settecento), di fissarla su nastro tramite soluzioni tecniche mai pensate prima, di curarne perfino la confezione. Tutto quanto all’incredibile età di 23 anni (la stessa in cui, qualche tempo dopo, Stevie Wonder avrebbe sfornato Innervisions: ci sono numeri ricorrenti, nella storia della musica del Novecento).
Il capolavoro Pet Sounds, uscito nella primavera di quell’anno, era stato da lui composto, arrangiato e prodotto, perfino quasi completamente cantato. Forse non aveva avuto il successo commerciale di altre uscite dei Beach Boys, ma quel disco aveva fatto diventare Brian Wilson una divinità agli occhi dei musicisti di mezzo mondo. E tutti avevano drizzato le orecchie, quando aveva dichiarato di voler comporre un album che sarebbe stato una «sinfonia adolescenziale dedicata a Dio», un salto evolutivo per la musica popolare americana, capace di far decantare R&B, classica, jazz, doo-wop, folk, fino a ottenere un perfetto distillato pop. Ma quelle stesse aspettative, le pressioni della Capitol Records (il contratto dei Beach Boys costringeva Brian a comporre e produrre tre album all’anno), i conflitti con gli altri fratelli Wilson e soprattutto con il cugino Mike Love («a Mike quel disco non piaceva»), nonché – ultima, ma non per importanza – una crescente abitudine all’abuso di sostanze stupefacenti e alcol, avrebbero fatto sprofondare il genio in una spirale depressiva: l’esaurimento nervoso che avrebbe impedito l’uscita di Smile così come era stato progettato da Brian Wilson, avrebbe segnato anche la fine dei suoi giorni da (per quanto reticente) leader di una generazione musicale. Ma non la fine della storia di Smile. Che, se volete andare molto oltre queste poche righe, è raccontata in modo magistrale – e piuttosto emozionante – nel documentario Beautiful Dreamer di David Leaf, uno dei motivi per cui ringraziamo piattaforme come YouTube di esistere (fortunatamente, non offre solo i Me contro Te).
La storia di Smile è una storia che va oltre la musica, e che ci colpisce perché gioca con un tema fondamentale delle nostre vite: il contrasto tra quello che volevamo essere, quello che avremmo potuto essere, quello che siamo stati, quello che siamo diventati.
Smile voleva essere, nei piani di Brian Wilson, il grande album art-rock – o meglio, art-pop – dell’epoca. Doveva essere meraviglioso, folle e perfetto, frutto di sessioni di registrazione estreme che prevedevano l’utilizzo di, nell’ordine: studi coperti di sabbia dell’oceano; tende arabe; musicisti vestiti da pompieri; e soprattutto, scusate se mi ripeto, quantità industriali di droghe (niente di strano, per carità: era pur sempre la California di metà anni Sessanta).
Smile avrebbe potuto essere, se fosse stato completato nel momento storico giusto, un album capace di un impatto paragonabile a Sgt. Pepper’s: la sensazione è confermata se si ascoltano le molte canzoni provenienti dalle prime registrazioni di Smile, poi finite disperse in altri album dei Beach Boys. Anche senza considerare il singolo-blockbuster Good Vibrations, che meriterebbe un saggio a parte, si tratta di una sequenza di capolavori allucinati e malinconici, epici e psichedelici: Surf’s Up, Heroes and Villains, Cabin Essence. Non c’è da stupirsi se, per anni, i fan hanno saccheggiato bootleg, e incollato insieme più canzoni provenienti da fonti diverse (ben prima della possibilità di comporre playlist digitali semplicemente spolliciando sullo schermo del cellulare), tentando di riprodurre il loro oggetto del desiderio.
Smile è stato effettivamente, negli anni Sessanta, una sua versione minore, l’album intitolato Smiley Smile, prodotto in fretta e furia per onorare i già citati contratti-capestro con la Capitol. Ma pur se bistrattato dalla storia, oggi possiamo riconoscere che Smiley Smile in realtà è un capolavoro freak, imperfetto e affascinante. Un disco pieno di ironia, nella musica ancor prima che nei testi, con tutto quello che di meglio significa il marchio Beach Boys (la malinconica allegria, le armonie perfette), ma anche la capacità di sorprendere l’ascoltatore: la celestiale melodia di Wonderful poteva costituire fondamenta ideali su cui appoggiare un’orchestrazione epica; invece la versione uscita su Smiley Smile è minimale – e sempre, comunque, meravigliosa. Decidete voi se invece preferite l’arrangiamento presente nel box The Smile Sessions, i cui curatori si sono presi la briga di comporre un bootleg “ufficiale”, la cosa più vicina allo Smile del 1967 che mai avremo tra le mani.
Smile è infine diventato, come scrivevo più sopra, Brian Wilson Presents Smile, un concept album che è riuscito finalmente nell’impresa titanica di mettere ordine in quel ripostiglio pieno frammenti di canzoni e nastri abbandonati. Con la collaborazione di Van Dyke Parks e di un nuovo salvatore, il musicista Darian Sahanaja, Brian ha ricomposto i pezzi in un puzzle di 47 minuti, che magari non sarà meglio di Sgt. Pepper’s, ma rimane grandioso all’ascolto, in tutti i sensi. Se sia un lieto fine o meno, è difficile dirlo. Come del resto spesso capita, appunto, nella vita.
"At My Piano" di Brian Wilson, Decca
La Recensione 25.03.2022, 16:00
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