Qualcuno si ricorda il Novecento? Era un’epoca lontana in cui i problemi dell’industria musicale erano gruppi di ragazzini che a Napoli producevano compilation illegali su musicassetta.
Oggi la pirateria non è più solo dalla parte del consumatore finale: nell’era dello streaming, anche artisti e produttori possono giocare al gioco del tarocco. Ovviamente, per un tornaconto.
Falsi streaming, li chiamano: sono quelli prodotti da software che generano automaticamente migliaia di nuovi account fasulli, programmati per riprodurre ripetutamente una canzone o una playlist. L’attività di questi bot non porta solo a un'inflazione artificiale degli stream: a causa del modo in cui i servizi di streaming remunerano i musicisti – e cioè mettendo insieme tutti i fondi e poi dividendoli in base alla porzione di ascolti ottenuti da ciascun titolare di diritti – manipolazioni del genere riducono i soldi disponiblli per gli artisti che giocano secondo le regole.
Il problema non è nuovo, e in fondo è solo una variazione sul tema “case discografiche e artisti cercano di truccare i dati di vendita”, vecchio probabilmente quanto l’industria musicale. Da quando lo streaming è diventato re, queste frodi informatiche sono state considerate poco più di un fastidio inevitabile, piccole falle in un sistema tutto sommato efficiente. Tuttavia, negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi di artisti anche piuttosto affermati che hanno fatto ricorso a streaming “comprati”.
Già un anno fa un dirigente francese di Deezer aveva ammesso che è sempre più comune vedere artisti da top 200 che hanno milioni di stream reali e stream falsi, annodati in maniera inestricabile. La rivista di giornalismo investigativo Les Jours arrivava a ipotizzare che più di un quarto degli stream delle novità francesi fossero falsi. Il ragionamento ha senso: gli ascolti nei primi giorni dopo il lancio di un singolo sono la prima misura del successo e della possibilità di un pezzo di diventare virale, quindi appare chiaro il motivo per cui molti abbiano interesse a dopare i numeri proprio in questa fase.
Ovviamente non si tratta certo di un problema solo francese: nel 2021 il Brasile ha chiuso molti siti che si occupavano proprio del cosiddetto “stream-boost”, un eufemismo per indicare la vendita di flussi streaming falsi. In Germania invece, alcuni rapper hanno sostenuto pubblicamente che le organizzazioni criminali stiano usando gli streaming falsi per riciclare denaro nel Paese.
L’idea non è così lunare, visto che in fondo sembra un sistema relativamente semplice: pagare denaro di provenienza illecita a una società che si occupa di manipolare lo streaming, per poi ricevere in cambio royalties, cioè soldi puliti.
Fake stream: la zona grigia
In alcuni casi, intendiamoci, artisti e manager possono essere coinvolti anche in maniera inconsapevole in queste attività di manipolazione. Si sono infatti moltiplicate, nel corso degli ultimi anni, le aziende di marketing digitale che promettono di incrementare gli stream. Alcune lo fanno con tecniche assolutamente legittime (ad esempio, attraverso le pubblicità sui social network, oppure inserendo brani in playlist che non richiedono un pagamento), ma non tutte sono altrettanto trasparenti. E non è detto che trovarsi nella zona grigia sia comunque un vantaggio per gli artisti, visto che c’è sempre la possibilità che le piattaforme rilevino attività sospette e blocchino i pagamenti.
Sempre in Germania, già nel 2019 un giornalista televisivo aveva intervistato un hacker che si occupa proprio della creazione di playlist con migliaia di follower, grazie a dati di accesso rubati agli utenti di Spotify. In questo modo il singolo hacker riesce a streammare a ciclo continuo i brani che vuole promuovere, magari distogliendo l'attenzione delle piattaforme semplicemente riempiendo le playlist con altri pezzi noti e insospettabili.
Negli Stati Uniti, sono stati diversi gli hacker specializzati in falsi stream a rilasciare interviste, anche senza essere protetti dall’anonimato, visto che non ci sono leggi particolarmente severe a punire il loro lavoro. Le tariffe sono così diventate abbastanza chiare: 100.000 stream pare vengano in genere venduti a 1.500 dollari. Anche rapper di profilo medio-alto, come French Montana e G-Eazy, sono stati scoperti a far uso di questi “aiutini”. Che – è bene ricordarlo – al di là di ogni discorso riguardo all’immagine, rappresentano soldi concreti: il mercato delle royalties da streaming solo negli Stati Uniti vale circa 13 miliardi di dollari; se anche solo il 2% di questi soldi venisse assegnato grazie a stream fraudolenti, e sono certo si tratti di una valutazione assai ottimistica, si tratterebbe comunque di centinaia di milioni.
Un'agenzia anti-frode per la musica?
Qualcuno, d’altra parte, ha visto il problema delle frodi come un’ulteriore opportunità di business: sono già diverse infatti le start-up che promettono di offrire ai servizi di streaming e alle case discografiche software-detective, imbattibili nello scovare account e playlist dedite all’aumento artificiale dei numeri.
Sia come sia, in attesa di una soluzione tecnologica capace di evitare che qualche piccola associazione a delinquere rubi soldi agli artisti onesti (soprattutto a quelli indipendenti, che nella maggior parte dei casi certo non hanno bisogno di un ulteriore dimagrimento dei loro assegni), potremmo ad esempio iniziare a lavorare sulla cultura del music business.
Gli artisti che pagano per vedere gonfiati i propri numeri, infatti, non lo fanno tanto per un ritorno economico immediato, visto che 100.000 stream rappresentano mediamente un guadagno intorno ai 400 dollari (le variabili in gioco sono molte, ma si tratta di una cifra più o meno credibile). Ben più importante è la percezione che quei numeri possono offrire, al pubblico, alle case discografiche e alle piattaforme stesse. Diffondere l’impressione che un pezzo stia andando incontro al successo e stia creando viralità può essere una chiave per decretarne il successo reale. Del resto gli americani lo dicono da tempi non sospetti: fake it ‘til you make it. Nel caso della musica, il detto vale doppio.
Dunque, la succitata soluzione culturale sarebbe quella di smetterla di presentare ogni musicista capace di ammassare qualche centinaio di migliaia di streaming (o simili) come un nuovo fenomeno, e tornare a pensare all’impatto della musica. Premesso infatti che forse nell’era della frammentazione non esisteranno più le star totali di un tempo, è però ancora possibile capire chi ha prodotto una canzone capace di colpire l’immaginario e chi è solo l’ennesima meteora, che ha sempre bisogno di essere raccontata come “l’artista da 50 milioni di visualizzazioni”.
Le star, quelle vere, non hanno mai avuto bisogno di presentare rendiconti al pubblico.