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Sufjan Stevens, canzoni tristi e pop che vola Altissimo

Javelin è l’ultimo album del cantautore di Detroit, capace di tenere insieme Brian Wilson, Leonard Cohen, Neil Young, Simon & Garfunkel. E di dimostrare che anche il pop può essere spirituale nel senso più profondo del termine. Altro che christian rock 

  • 14.10.2023, 11:59
  • 14.10.2023, 12:02
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Di: Michele R. Serra 

Perché ci piacciono le canzoni tristi? Cosa ci attira verso le scale minori, verso le voci che sembrano lamento, le storie che finiscono male? L’attrazione verso le sad songs, è sempre quella che cantava Elton John già quarant’anni fa: “Immagino che ci siano momenti in cui tutti abbiamo bisogno / di condividere un po’ di dolore […] Ed è in momenti come questi che tutti noi abbiamo bisogno di ascoltare la radio / Perché attraverso le labbra di qualche vecchio cantante / Possiamo condividere i problemi che abbiamo.” Perdonate la traduzione approssimativa, ma il senso c’è: abbiamo bisogno delle canzoni tristi perché, nella maggior parte dei casi, ci fanno sentire meglio. Ecco il paradosso: in genere non ci piace essere tristi nella vita reale, ma ci piace l’arte che ci fa provare quel tipo di emozione. Difficile capire perché.
Il New York Times solo pochi mesi fa riportava la storia del dottor Knobe, filosofo e psicologo che insegna all’università di Yale (una tra le più prestigiose d’America) e ha passato gli ultimi anni a studiare i meccanismi mentali che rendono la musica triste una forza positiva. Il risultato dei suoi studi è un documento scientifico di una trentina di pagine, che giunge più o meno alle stesse conclusioni di Elton John: la tristezza è un’emozione molto intensa, la sua presenza può provocare una reazione empatica positiva. Percepire la tristezza di qualcuno – ad esempio un cantante – può favorire comportamenti prosociali, e una sensazione di connessione con gli altri.

Javelin, canzoni tristi che contengono universi

Dunque, è naturale che ci piacciano le canzoni tristi. Cantanti e industria discografica l’avevano capito empiricamente già molto prima della scienza, e spesso hanno sfruttato l’informazione per trarne immediati vantaggi, che con l’arte hanno poco a che fare. Non tutti, però. C’è un cantante americano di musica triste a cui la definizione va strettissima, e che dopo vent’anni di carriera continua a sfornare capolavori capace di contenere interi universi emotivi, ben oltre gli arpeggi di chitarra, la voce che diventa quasi un sussurro, le scale minori e tutto il resto dell’armamentario tipico del sad songwriter.
È un capolavoro anche l’ultimo Javelin, per Sufjan Stevens. Decimo album ufficiale, rappresenta un ritorno a quel cantautorato pop / indie / folk che gli ha dato la prima fama, quella di metà anni Duemila che faceva spendere a Pitchfork – ai tempi sì, un’autorità in materia di musica alternativa, qualsiasi cosa significasse – aggettivi come “lussureggiante” e “colossale”, e frasi come “Stevens ha la notevole abilità di essere entusiasmante e angosciante allo stesso tempo, sollecitando centri emotivi diversi – fino all’ultimo non è chiaro se sia meglio prendere le scarpe migliori per una festa, o una scatola di fazzoletti.” È vero anche nel caso di Javelin, che pure risente di esperienze recenti che avrebbero piegato chiunque, non solo un cantante tendente alla malinconia: nell’ultimo anno Sufjan ha perso colui che ha definito “l’amore di una vita”, Evan Richardson, morto qualche mese fa all’età di soli 43 anni. Ed ecco spiegato perché, come molti critici avevano notato prima che la notizia della morte di Richardson fosse resa pubblica, molte delle canzoni parlano dell’amore come perdita, come abbandono. Ma non basta: a settembre Stevens ha rivelato anche di essere stato colpito da una grave malattia autoimmune, la sindrome di Guillain-Barré, che l’ha lasciato semi-paralizzato e con la prospettiva di una lunga terapia riabilitativa prima di poter riprendere una vita indipendente.
Intendiamoci, non ci sono riferimenti diretti a questi avvenimenti, perché Sufjan Stevens percorre una strada lontana da quella della semplicità e della chiarezza sparata in faccia, molto battuta dai giganti del pop moderno. Le confessioni in prima persona ci sono, ma sono spesso coperte da strati di fiction, che trovano significato grazie alle atmosfere, all’evocazione musicale.
Dietro la malinconia dei toni risplende sempre qualcosa, nei testi e nella musica agrodolce, che predispone allo stupore, alla meraviglia. Come se la tristezza servisse da catalizzatore, per sublimare questi aspetti e mewtterli in collegamento con un’ode alla fragilità e all’impermanenza della vita umana. Non vorrei sembrare inutilmente poetico, ma questa è musica leggera nel senso che vola in altissimo. O verso l’Altissimo, vista la spiritualità di cui sono imbevuti (come spesso capita con Stevens) i testi, colmi di riferimenti religiosi.

Sufjan Stevens e il Christian Rock

“…Dopo che l’esaurimento sofferto della vita mi aveva spinto nel ventre tetro del realismo, i miei pensieri più profondi erano tristi e statici: nulla conta davvero, nessuno mi ama e la solitudine sarebbe sempre stata la mia compagna più devota. Nella mia nuova visione del mondo priva di amore, cominciai a vedere ogni cosa come un oggetto senza significato, senza modificatore. Il barbone che vendeva giornali vecchi in metropolitana era solo un barbone che vendeva giornali vecchi in metropolitana. Non c’era nessuna metafora, nessuna estasi, nessun incanto cosmico. Allora mi sono chiesto: questo rende l’uomo, il giornale, la metropolitana o me stesso meno significativi? No. Al contrario.”
È tutto scritto in uno dei dieci brevi saggi (più o meno) autobiografici che accompagnano Javelin, e riassume perfettamente quello che rende unica ogni canzone di Sufjan Stevens: la capacità di mettere in contatto il terreno e il trascendente, qualsiasi cosa quest’ultima parola significhi (è, del resto, parola misteriosa). Qualcuno ha provato a inserire Stevens tra le fila dei musicisti del Christian Rock, lui ha risposto che quel genere è un “artificio”, quando non – meno gentilmente – “didactic crap” (lascio a voi la traduzione). Eppure il Vangelo è parte integrante della musica di Sufjan Stevens, intessuto dentro i suoi testi come in quelli di Bob Dylan e Johnny Cash, ma senza alcun esplicito obbiettivo di conversione. Come ha scritto il critico David Roark qualche anno fa, “[…] Per Stevens, il Vangelo si infiltra in e dà forma a tutta la vita e tutta la cultura. Si rivolge all’intera esperienza umana, alla totalità della vita, come da definizione di Francis Schaeffer. La musica di Stevens di conseguenza non allontana gli ascoltatori che hanno convinzioni diverse. Il suo lavoro può sembrare meno spirituale di quello di altri, dato il suo apparente concentrarsi su cose terrene invece che sacre, ma in realtà si dimostra assai più universalmente accessibile rispetto alla musica cristiana contemporanea – il che è ironico, visti gli obbiettivi di proselitismo di quest’ultima”.

Sufjan Stevens è riuscito nell’impresa di mettere insieme una tradizione di musica americana che potremmo riassumere come contraria al materialismo di cui l’America è campionessa mondiale: non è difficile, ascoltando Javelin, pensare a Neil Young (l’ultimo brano dell’album è una cover della sua There’s a world), Simon & Garfunkel, Brian Wilson, Leonard Cohen, oltre ai già citati Dylan e Cash. Spalle gigantesche su cui appoggiarsi, per far stare in piedi la propria musica. Pensare che le opulente sinfonie pop di Javelin siano parto quasi esclusivo della mente e dell’abilità di polistrumentista di Stevens – con l’aiuto, certo, di qualche amico qua e là – rende il risultato ancora più incredibile.

28:40

“The Ascension” di Sufjan Stevens

La Recensione 29.10.2020, 16:00

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