Il processo alla star non è un genere nuovo nel panorama mediatico globale, e americano in particolare: un tempo si usava per vendere giornali, oggi per fare qualche visualizzazione in più, ma la sostanza è cambiata poco. L’ultimo ad aver catturato l’attenzione del pubblico oltreoceano è quello (aperto la settimana scorsa) che vede imputato Jamell Demons, rapper ventiquattrenne conosciuto dal pubblico con il nome di YNW Melly. Melly è accusato di avere ucciso due amici (entrambi peraltro rapper della sua crew), Anthony Williams e Christopher Thomas Jr., colpendoli con un’arma da fuoco a Miami, nell’ottobre 2018. Il processo è stato oggetto di ampia copertura mediatica negli Stati Uniti, e perfino di un podcast prodotto da Spotify. Prima di essere accusato di omicidio, Melly aveva accumulato centinaia di milioni di streaming e messo a segno collaborazioni con nomi maiuscoli dell’hip-hop americano, da Lil’Baby a Future, da Kodak Black a Kanye West.
USA: i testi dei rapper usati in tribunale
La particolarità di questo processo, è che già alle prime battute Jason Rogers Williams, uno degli avvocati del rapper, ha sentito il bisogno di dichiarare che temeva che la procura avrebbe usato i testi delle canzoni di Melly per rafforzare la posizione dell’accusa. Williams si basava sulla sua precedente esperienza come avvocato di Boosie BadAzz, rapper accusato di omicidio nel 2011: durante quel dibattimento, i procuratori avevano usato in aula diverse canzoni dell’imputato, poi prosciolto dall’accusa. Insomma, quella che poteva sembrare solo l’affermazione di un principio scontato – gli atti concreti e le parole si trovano su due piani di realtà diversi, dovrebbe ancora essere così – risulta in realtà figlia di un timore tutt’altro che lunare. L’ultimo decennio infatti è stato quello in cui la musica, e in particolare il rap, è stata usata con una frequenza mai vista prima come strumento d’accusa nelle aule dei tribunali americani. L’anno scorso il New York Times riportava i risultati di una ricerca condotta dalla professoressa Andrea Dennis della facoltà di giurisprudenza dell’Università della Florida, che aveva contato circa un centinaio di casi tra il 2005 e il 2020, riferiti per il 99% a rapper (letteralmente: solo uno aveva a che fare con altri generi musicali). Vero che siamo di fronte a una vera e propria rinascita, pur se in forme diverse, del genere gangsta che aveva spaventato l’America nei Novanta. Tuttavia, la cifra rimane francamente esorbitante. Non perché le canzoni citate non raccontino effettivamente storie crude, violente, o facciano riferimento ad atti illegali. Ma semplicemente perché è difficile venire a patti con l’idea che le parole di una canzone possano avere peso in un processo penale, in cui si dovrebbe giudicare sulla base di fatti compiuti. Eppure quelle stesse parole sono state usate non da un singolo procuratore particolarmente fantasioso, ma da molti, per convincere giudici e giurie che alcuni imputati avevano una certa “propensione” a commettere un particolare reato. Il Senato dello Stato di New York, città storicamente culla dell’hip-hop, è intervenuto approvando una legge che rende l'espressione creativa o artistica di un imputato categoricamente inammissibile come prova a suo carico. Altri stati però non hanno regole chiare al riguardo, e così i procuratori continuano a portare i testi dei rapper nei tribunali, come è successo di recente nei casi di artisti arcinoti come Gunna e Young Thug.
Italia: il caso P38 La Gang
Dunque, si tratta forse di un'usanza - una stortura, se preferite - tipicamente americana?
Purtroppo no: anche in Inghilterra ad esempio si contano diversi casi, anche se non coinvolgono per ora artisti di alto profilo. E se in altri paesi i sistemi legali non incoraggiano l’uso di canzoni come prove a carico nei processi, non sono mancati i procedimenti in cui sono state le canzoni stesse a finire sul banco degli imputati, con artisti accusati di oscenità e persino di istigazione a delinquere. Per carità, non si tratta certo una novità storica, ma negli ultimi tempi siamo giunti a livelli piuttosto grotteschi. In Italia, ad esempio, è appena arrivato a un primo, parziale punto il caso forse più assurdo tra quelli arrivati sui giornali nel corso dell’ultimo anno: quello del collettivo musicale piemontese P38 La Gang, accusato di apologia di reato e – appunto – istigazione a delinquere aggravata da finalità terroristiche. Per riassumere molto brevemente chi siano i P38: si tratta di un gruppo trap/drill/punk che ha scelto di rifarsi all’immaginario del terrorismo di sinistra degli anni Settanta. Scelta senza dubbio discutibile, ma non è questo il punto.
Ora, come è già stato scritto in modo assai più esaustivo in altre sedi, i P38 sono un gruppo poco conosciuto e senza, diciamo, composizioni memorabili al loro attivo. Usano quelle immagini per mettere insieme testi dal sapore grottesco, con l’intento, al massimo, di trasformare i loro autori in meme-rapper. Nessuno potrebbe prenderli sul serio, insomma. Eppure la procura di Torino l’ha fatto, chiedendo gli arresti domiciliari per i membri del gruppo, richiesta respinta definitivamente dalla corte di Cassazione proprio lo scorso venerdì. Già a marzo, il tribunale del Riesame aveva scritto che non si poteva certo escludere che le condotte contestate costituissero soltanto un’operazione artistico/musicale provocatoria, “che affonda le sue radici nel genere rap/trap e che costituisce la sua voluta novità nel proporre come modello antisociale il terrorista degli anni Settanta”. Ancora più interessante la parte della sentenza che ricordava come – specificamente riguardo al genere trap – “non è infrequente che alcuni cantanti trapper (che inneggiano al denaro profitto di spaccio, alla violenza fisica, etc) siano arrestati per effettivo spaccio di droghe (è emerso che in taluni casi la droga mostrata nei video era vera ed era venduta dal cantante in persona), per il coinvolgimento reale in risse, o per altri episodi di violenza effettiva contro le persone. Insomma e chiaramente, il cantante che si “rappresenta” al pubblico come spacciatore (ad esempio) viene penalmente perseguito laddove emerge che tale attività delinquenziale venga posta in essere per davvero, fuori dunque dalle finzioni provocatorie ed estreme delle strofe di canzoni e delle pose ed immagini di video musicali”. I corsivi enfatici sono nel testo originale, e si capisce perché siano importanti. Al di là di ogni giudizio morale o artistico sul valore e i contenuti di una canzone, rimane sorprendente che sia necessario ribadire per via giuridica la differenza tra realtà e finzione, tra la violenza vera e il racconto. Eppure, forse, il mondo occidentale non sembra più darlo per scontato.