Quando il 24 settembre del 1999 esce Verdena, il primo album dei Verdena, in pochi scommettono su quei tre ragazzi – i fratelli Alberto e Luca Ferrari e l’amica Roberta Sammarelli, rispettivamente voce e chitarra, batteria e basso, sessant’anni in tutto – della profonda provincia di Bergamo. Non è un esordio fulminante: l’ha prodotto un nume tutelare del rock italiano come Giorgio Canali, ma a parte il singolo Valvonauta, con videoclip è in alta rotazione su MTV e che alla lunga diventerà uno dei loro classici, non c’è tanto altro. Sembrano ingenui e derivativi, li chiamano “Nirvana italiani”, ma non è un grande complimenti. C’entrano del look e della passione per il grunge, ma è indice anche di un certo ritardo sulla tabella di marcia delle mode. Sono quasi la versione per adolescenti – i fan, allora, sono giovanissimi – di una scena alternativa che sta dando il meglio con band invece già mature come Afterhours e Subsonica. Vendono bene anche loro, sì, ma è difficile, lì per lì, notare qualcosa che li renda speciali.
E invece, riascoltato oggi, Verdena è una profezia, la nascita di una band diversa dalle altre, che tutt’ora rappresenta un cortocircuito nella musica italiana. Per esempio, quella che veniva scambiata per attitudine da debuttanti, cioè la negazione di ogni compromesso, alla ricerca di uno stile ruvido, feroce, sarà in realtà la bussola di una carriera unica, da selvaggi. Adesso l’approccio naif, da antidivi, alla promozione, alla stampa e in generale al mestiere ‒ che se solo fosse voluto sarebbe dissacrante, ma non lo è ‒ è diventato un codice distintivo, uno degli elementi che ha permesso loro di avere un successo enorme e duraturo, tale da essere considerati la band rock italiana più seguita e apprezzata degli ultimi 25 anni. Subsonica e Afterhours, per dire, hanno percorso traiettorie diverse, si sono spenti o sono finiti in contesti televisivi. I Verdena non hanno saltato lo steccato, più per indole che per ideologia, eppure hanno firmato lo stesso contratti con le major, raccolto le proprie certificazioni di vendita, suonato in festival enormi. Impensabile, per un gruppo così estremo.
Verdena è un diamante grezzo, in cui s’intravede il genio. Quello compositivo, che si esprime in schegge micidiali di cui proprio Valvonauta è capofila e che più avanti si evolverà in composizioni mastodontiche e stratificate. E quello visionario di Alberto Ferrari, che con i testi gioca già un campionato a sé: come i primi Afterhours, unisce frasi che in italiano non hanno senso compiuto, seguendo il puro gusto armonico e di suono, ma se nel caso della band di Manuel Agnelli il risultato era per lo più provocatorio, abrasivo, con lui è evocativo, sognante, malato, misterioso. E tale resterà. Il leitmotiv per cui “le liriche sono il punto debole dei Verdena” andrà avanti per una decina d’anni, il tempo di spingerli e renderli un minimo divisivi nel dibattito: poi si arenerà davanti all’evidenza dei fatti.
Gli apici arriveranno tra il 2004 e il 2011, con il trittico di Il suicidio dei samurai (2004), Requiem (2007) e Wow (2011), il loro capolavoro, un doppio LP in cui rileggono a modo loro le melodie in stile Battisti, scendono a patti con il rumore degli esordi e che, per varietà, è una sorta di White album italiano. Rispetto a Verdena, la forza è stata nell’evolversi – sono passati per tutte le forme dell’alternative rock, dalla sperimentale alla psichedelia e oltre – e nel crescere senza imborghesirsi, né tradirsi, o perdersi. E senza consumarsi: da lì in poi hanno pubblicato appena due lavori, cioè Endkadenz (un altro doppio, del 2015, in cui per la prima volta compare in maniera massiccia un pianoforte, piovuto nel loro studio quasi per caso) e l’ultimo Volevo magia (2022), forse il più duro del repertorio; una produzione schizofrenica nei tempi e nei modi, ma che ha fatto sì che ogni capitolo fosse pensato, atteso, lavorato, innovativo rispetto ai precedenti, necessario. Se non è il caso, ci sono i progetti paralleli, come gli I Hate my Village in cui Alberto Ferrari suona afrobeat, o Sammarelli che, con il suo stile iconico e martellante, è molto richiesta come musicista (quest’estate è stata in tour con Motta).
In mezzo, ancora, un pubblico ampio e trasversale e brani di successo come Scegli me (Un mondo che tu non vuoi) e Un po’ esageri, che oltre a essere incensate dalla critica hanno aperto la breccia del grande pubblico: di fatto, i Verdena hanno una notorietà da grandi e sono inseriti nei circuiti mainstream, pur tenendo concerti indiavolati e mantenendo un’identità da outsider. Ma è per questo, oltre che per la paradossale garanzia di follia che rappresentano, che affascinano: per quest’essere estremi in un ambiente che non lo concede, puri e incontaminati, per lo sprezzo del pericolo ‒ che nel mercato significa non venire compresi, essere estromessi, bruciarsi ‒ che dimostrano, per il loro combinarla sempre più grossa; è sostanzialmente impossibile rivedersi in loro, tanto che non hanno eredi, ma in un certo senso è appagante osservare che una band su tante, alla fine, ce la fa. E il seme era già in Verdena, quando si pensava che fossero solo l’imitazione italiana dei Nirvana. Invece hanno fatto molto di più.