Musica indie rock

“La nostra band potrebbe essere la tua vita”

Quarant’anni fa, negli USA, uscirono alcuni importanti dischi di rock indipendente, la cui diffusione favorì il successo commerciale dei Nirvana e della scena alternativa anni Novanta

  • 2 ore fa
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Radio Monnezza 02.09.24 - The Replacements

RSI Cultura 17.10.2024, 09:00

  • The Replacements (Ron Wolfson Everett Collection)
Di: Andrea Rigazzi 

Parafrasando, si potrebbe dire “si fa presto a dire indie”. Negli ultimi anni c’è stato uno sdoganamento in ambienti meno esoterici di questo termine, abbreviazione di independent. Parola che raggruppa sotto di sé tanti significati, tante diverse interpretazioni ma che, per quanto riguarda la musica, significa in particolare una cosa: indipendenza discografica. Ossia, non incidere per una delle major, come Warner o Sony. Questa libertà da vincoli commerciali permette di fare la propria musica fregandosene dello stile, delle richieste dell’industria e anche dell’immagine.
La nostra storia la facciamo cominciare dagli anni Ottanta, per la precisione dal 1984. Anno di uscita di alcuni dei dischi che hanno fornito alla musica indipendente la spinta per poi, nel decennio successivo, ampliare il suo mercato trasformandosi, una volta emersa in superficie, in rock “alternativo”. In certi circoli musicali, indipendenza e mercato non vanno tanto d’accordo, ma è successo, con ricadute positive anche per chi è partito da questi sotterranei della musica.

Proprio questo mese ha compiuto quarant’anni “Let It Be”, terzo disco dei Replacements. Titolo beatlesiano per una band dai connotati invero più stonesiani. Non soffermiamoci però sulle etichette, in questo caso nel senso di definizioni. Andiamo al cuore del disco. Un cuore sbronzo, quello dei Replacements di Minneapolis. Concittadini, amici-rivali degli Hüsker Dü, i “Mats”, come li chiamano affettuosamente i fan, ruotano attorno alla figura del leader Paul Westerberg. È il suo timbro di voce rauco a creare subito quell’atmosfera da bar di periferia, di bicchieri in cui affogare le contraddizioni dell’essere giovani e disadattati nei cotonatissimi anni Ottanta.

Rispetto al punk traboccante di emotività e melodie degli Husker, quello di “Let It Be” è rock’n’roll memore delle lezioni dei già citati Rolling Stones, delle New York Dolls e dei Kiss, questi ultimi omaggiati nel disco con una rilettura di “Black Diamond”. Sono però altri gli episodi che colpiscono, perché provvisti di quella sana pasta randagia. A cominciare dalla canzone che apre il disco, la tintinnante “I Will Dare”, impreziosita dall’assolo di Peter Buck, il chitarrista dei REM, all’epoca ancora promettente gruppo indie. Ci arriveremo tra poco. E che dire di “Unsatisfied”? Un pezzo che cerca di trattenere la delusione fino a quando non ce la fa più. E il riascolto diventa obbligato. Erompe, in questo brano, tutta la rabbia repressa della gioventù cresciuta all’ombra della presidenza Reagan.
Spiccano poi l’incomunicabilità di “Answering Machine”, in cui Westerberg si chiede come si possa augurare la buonanotte a una segreteria telefonica, e il pezzo voce e pianoforte “Androgynous”, che porta con un certo anticipo il suo contributo al dibattito sui temi di genere. Non mancano però gli episodi più chiassosi, goliardici nello spirito, in cui il punk rock si fa strada, come “We’re Comin’ Out” o “Tommy Gets His Tonsils Out”.

Proprio i Replacements saranno il primo gruppo a compiere il salto verso un’etichetta major, la Sire. Accade proprio poco prima che esca “Let It Be”. Sotto le stesse insegne di, tra gli altri, Madonna, Ramones e Talking Heads, usciranno con “Tim”, più addomesticato nel suono ma non privo di perle, come “Bastards of Young”, “Kiss Me on the Bus” e “Here Comes a Regular”. “Tim” non è certo ascolto buttato. Poi il tramonto, e per Westerberg una carriera solista di medio cabotaggio.

Se con le loro ballate i Replacements mettono in luce il lato più romantico dell’essere disadattati, i Meat Puppets di Phoenix si profilano decisamente di più nella categoria dei fuori di testa. I nostri Burattini di Carne nella primavera del 1984 escono con “Meat Puppets II”. I fratelli Curt e Cris Kirkwood, rispettivamente alla chitarra e al basso, sono il nucleo elettrico di questo trio. La musica dei Meat Puppets è figlia delle contingenze, verrebbe da dire. Perché per giovanotti fuori dagli schemi come loro, l’unica cosa che si poteva fare in mezzo al deserto dell’Arizona era suonare. Suonare o sballarsi. Loro avevano scelto entrambe le cose. Il loro secondo album frulla con allegro menefreghismo country, bluegrass, punk hardcore e il rock delle grandi firme dei Settanta, gente come Neil Young and Crazy Horse, volendone citare una.
Dopo l’uno-due ipercinetico con “Split Myself in Two” e “New Gods”, si passa alla ballata intossicata “Plateau”. Negli stessi solchi trovano posto “Oh, Me” e “Lake of Fire”. Forse gli ultimi tre titoli citati vi dicono qualcosa. Sì, sono i pezzi dei Puppets portati dai Nirvana nel loro celebre Unplugged. I fratelli Kirkwood raggiungono il loro estimatore Kurt Cobain sul palco di Mtv per eseguire le loro canzoni. Sono gli unici a poterle suonare perché… sanno come vanno suonate!
All’epoca i Meat Puppets erano già finiti nei radar delle grandi etichette. Gli anni Novanta gli avevano consegnato in dono il “contrattone”, prendendosi però in cambio l’anima artistica del gruppo, pian piano spentasi e, quasi, anche la vita di Cris, alle prese con grossi problemi di dipendenze.

Di certo, in questo novero, i REM sono quelli che hanno meno bisogno di presentazioni, alla luce della carriera che hanno fatto. Anche loro però sono partiti dal milieu indie, e anche loro in quel 1984 escono con un album, “Reckoning”. Si tratta del secondo LP a distanza di un anno dal primo, “Murmur”. La band di Athens si dimostrerà alquanto prolifica, mantenendo il ritmo di un’uscita all’anno tra il 1983 e il 1988. “Reckoning” è una perla di pop “altro”, ma questo suo distinguersi dalle altre proposte non pregiudica l’immediatezza delle sue canzoni. È musica più immediata del suo predecessore. Il lato sfuggente è affidato ai testi di Michael Stipe. Un’opera di collage in cui la ricostruzione del senso è affidata alle orecchie di chi ascolta. Perché, sostiene il cantante, in nessuna relazione bisogna darsi completamente all’altro: che si tratti di matrimonio o di rapporto col pubblico.
“Reckoning” è un disco che “accade” in un’epoca connotata dal massiccio uso dei sintetizzatori. Non per niente lo stesso anno escono “Born in the USA” di Springsteen e “Jump”, il singolo dei Van Halen in cui il synth modella uno dei riff più rappresentativi degli Ottanta. Con il loro album, i REM vanno in direzione contraria, proseguendo nell’opera di recupero delle chitarre, e in particolar modo del suono “jingle jangle” che, dall’altra parte dell’Atlantico, Johnny Marr stava portando avanti negli Smiths.

La nostra sghemba cronologia la chiudiamo con i Minutemen e il loro “Double Nickels on the Dime”. Si tratta di un quadruplo album, nato a mo’ di sfida scherzosa lanciata ai colleghi di etichetta Hüsker Dü, che appena due giorni prima hanno pubblicato la pietra miliare “Zen Arcade”.
Solo un anno dopo, in un incidente stradale, morirà prematuramente D. Boon, chitarrista e cantante del trio californiano. Aveva ventisette anni, eppure nessuno lo ha mai inserito nel famoso Club 27, con gli Hendrix, le Joplin e i Cobain. Anche questo significa appartenere all’ala più ruspante del rock. “Double Nickels on the Dime” non è solo divertito rilancio ma, a sua volta, un’altra pietra miliare. Scegliere fra i quarantacinque pezzi in scaletta è impresa ardua. In questa messe trovano posto autentiche gemme di rock ad ampio spettro, compattato in brani brevi (la maggior parte sotto i due minuti) e dritti al punto come ha insegnato l’hardcore, con una ritmica che macina funk bello sudato e spunti jazzati nella giusta quantità. Godiamoci allora le arrembanti “Viet Nam” e “The Glory of Man” e la messicaneggiante “Corona”. Citazione a parte la merita “History Lesson – Part II”, il cui testo attacca con “La nostra band potrebbe essere la tua vita”. Diventerà il titolo del libro di Michael Azerrad dedicato alle band USA che hanno fatto la storia del rock indipendente. Di alcune abbiamo parlato in queste righe.

Band che hanno girato gli Stati Uniti a bordo di furgoni consumati dai tanti chilometri percorsi su e giù per il paese, da una costa all’altra, per esibirsi magari in localini sperduti di provincia, davanti a un pubblico di quattro-cinque personaggi nemmeno troppo entusiasti della musica suonata (eufemismo). Non sono solo immagini romantiche. Per questi gruppi la musica era più di un passatempo. Forse non ragione di vita – o forse sì – ma passione portata ostinatamente avanti fra sacrifici, ristrettezze e scomodità di sicuro sì. Alcuni di questi gruppi rimarranno saldamente ancorati all’idea di indipendenza, arrivando a fondare le loro etichette e a modellare una loro estetica musicale ed etica professionale.

Come pionieri, queste formazioni hanno aperto la strada percorsa con profitto nei Novanta dai vari Nirvana (sempre quelli), Lemonheads, Soul Asylum, Goo Goo Dolls. Tutti partiti dalla polvere dei localini per diventare star delle classifiche internazionali.

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