Musica rock

“Physical Graffiti”, i Led Zeppelin a un passo dal precipizio

L’album segnò il picco della band inglese, dopo un periodo di eccessi e prima di una caduta rovinosa

  • Oggi, 11:05
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  • Michael Putland/Avalon
Di: Michele Serra 

Tra 1968 e 1969, era ancora possibile non accorgersi dei Led Zeppelin.

Il sovraccarico di capolavori musicali di quegli anni poteva far passare inosservata quella nuova band inglese, nata dalle ceneri degli Yardbirds. Tra i Beatles del White Album, i Rolling Stones di nuovo rock di Beggar’s Banquet, Jimi Hendrix all’apice, Janis Joplin con la copertina disegnata da Robert Crumb, Johnny Cash live dal carcere di Folsom, Lou Reed che scrive le sue migliori canzoni pop, gli Who che producono l’opera rock per eccellenza, i King Crimson, Frank Zappa, i Cream, Van Morrison… Beh, era anche lecito, che uno potesse perdersi qualcosa. Come scrive Nigel Williamson nella sua The Rough Guide to Led Zeppelin, «Un sabato del marzo 1969, mi aggiravo come al solito per Bromley High Street con un gruppo di compagni di scuola, quando uno studente ci consegnò un volantino che pubblicizzava uno spettacolo dei Led Zeppelin […] Ma non m’interessava vederli. Avevo letto di loro sul Melody Maker e avevo concluso che erano semplicemente una nuova versione pompata dei vecchi Yardbirds, che consideravo – con studiato disprezzo adolescenziale – come poco più di un gruppo pop, non degno di far seriamente parte della scena del rock underground». A quel concerto, al leggendario Marquee di Londra, ci sarebbero state poco meno di un migliaio di persone (il locale poteva ufficialmente ospitare 700 spettatori, ma si sa che ai tempi le regole di sicurezza erano un po’ più lasche…). Un piccolo fenomeno, forse passeggero, che un ragazzino amante del rock poteva perdersi senza troppi rimorsi.

Nel 1975, no. Non era più possibile ignorare i Led Zeppelin.

Non era più possibile almeno dal 1971, quando erano diventati loro il punto di riferimento della musica inglese nel mondo: con i Beatles ormai finiti, i Rolling Stones che si stavano riprendendo dal disastro americano di Altamont, gli Who che si chiedevano cosa fare dopo il picco di Tommy, e i Pink Floyd ancora non del tutto esplosi presso il grande pubblico (sarebbe successo, ovviamente, nel 1973 con The Dark Side of the Moon). Ma intendiamoci, non era certo una vittoria per mancanza di concorrenza. 

Tra il 1971 e il 1973, i Led Zeppelin avevano costruito il loro mito. Robert Plant era il Golden God che irradiava mistica virilità dal palco, il petto nudo più idolatrato di quello di Iggy Pop, la carica erotica più potente di quella di Jim Morrison (da vivo, beninteso). I fan presenti a ogni concerto si contavano in decine di migliaia, e il manager Peter Grant era diventato il più ricco della scena musicale inglese. Erano sempre in tour, ma intanto Plant e Jimmy Page avevano trovato il tempo per scrivere Stairway to Heaven, Black Dog, Going to California, When the Levee Breaks (selezione personale, che fermo qui anche se potrebbe andare avanti per almeno altre cinque righe). Alla metà del 1973, però, gli Zeppelin erano arrivati all’esaurimento fisico, e avevano bisogno di una pausa.

Arrivò, finalmente, dopo il nono tour americano in un lustro, che aveva portato in dote guadagni, pubblico pagante, notti insonni, sostanze e donne in quantità eccessiva. Gli Zeppelin erano star globali di prima grandezza, di quelle che non usano antiquati dirigibili per spostarsi da uno stadio all’altro, ma un jet privato, per l’occasione soprannominato Starship. Per dirla con Jimmy Page (riprendo dal documentatissimo libro di Paolo Giovanazzi Physical Graffiti: Le storie dietro le canzoni): «Non era possibile fermare l’adrenalina. Il nostro metodo per rilassarci era far festa. Prima di capire dove ti trovavi, avevi perso una notte di sonno. Due settimane dopo, non avevi dormito per diverse notti, perché ti stavi divertendo». L’aneddotica è quella tipica del periodo, e comprende episodi più o meno discutibili e più o meno verificabili: tra gli altri, Jimmy Page che intreccia una relazione con una groupie quindicenne; Peter Grant che si mantiene efficiente con dosi industriali di cocaina, e (effetto collaterale?) finisce per prendere a pugni un fotografo durante una tappa a New York. 

John Paul Jones – notoriamente il più tranquillo del gruppo – era stufo degli eccessi di quei giorni, e aveva pensato di lasciare la band. Non era solo una questione di convivenza con gli alcolisti John Bonham e Richard Cole (tour manager per tutto il decennio dei Settanta), che avevano senza dubbio diverse cattive abitudini, tipo quella di devastare camere d’albergo. E neppure un problema di attenzione da parte del pubblico: Jones aveva accettato di buon grado l’idea che la maggior parte della gloria andasse a Page e Plant. Semplicemente, desiderava una vita da musicista meno estrema, e così decise di prendere un lavoro stabile, e a dir la verità piuttosto sorprendente: direttore del coro della Cattedrale di Winchester, una delle più importanti d’Inghilterra. Peter Grant sapeva che la personalità più pacata di John Paul Jones era fondamentale per mantenere in equilibrio la band, ed evitare che gli Zeppelin deragliassero completamente, così mise in atto una lunga opera di persuasione, e alla fine convinse il bassista che la felicità non stava a Winchester, ma 25 miglia più a est, nella ormai celeberrima villa di Headley Grange, già teatro della lavorazione di Led Zeppelin III, IV e Houses of the Holy (in seguito avrebbe ospitato Genesis, Fletwood Mac, Elvis Costello e molti altri). Fu il secondo successo dell’anno per il manager: l’altro era stato la creazione della Swan Song, etichetta finanziata e distribuita dalla Atlantic Records, ma controllata autonomamente dalla band e dal manager. Un jackpot assoluto dal punto di vista economico e creativo: come i Beatles con la Apple, la Swan Song offriva agli Zeppelin libertà creativa, ma anche l’opportunità di lanciare nuovi talenti e portare alla luce altre band amate dal gruppo, ma trascurate dall’industria discografica. A inizio 1974, insomma, tutto sembrava in ordine, e che per la prima volta la band avesse davvero il tempo e la tranquillità per sfornare un grande album. Ma la parola chiave delle righe precedenti è: “sembrava”.

In realtà, mentre Plant e compagni rallentarono il ritmo delle apparizioni pubbliche, i problemi non mancavano: da quelli relativi al film The Song Remains The Same, che venne perfino “sequestrato” dal regista Joe Massot dopo che Peter Grant lo aveva licenziato in malo modo, alla leggenda – tanto nota quanto mai verificata – che Plant si sia sottoposto a un’operazione segreta alle corde vocali, operazione che potrebbe essere all’origine del chiaro cambiamento della sua voce in quel periodo e che lo avrebbe costretto a un lungo periodo di riposo forzato.

Sia come sia, mentre gli Zeppelin lavoravano dietro le quinte, il rock si muoveva a velocità ipersonica, e molti espressero dubbi: la band era rimasta indietro, dopo un picco creativo irripetibile? Avrebbe mai potuto produrre un altro capolavoro? Oppure il pubblico era stufo? Le risposte arrivarono alla fine del febbraio 1975.

Physical Graffiti raggiunse in un batter d’occhio la vetta in Inghilterra e Stati Uniti. Il successo oltreoceano fu tale che tutti e cinque gli album precedenti rientrarono in top ten, e gli Zeppelin divennero il primo gruppo di sempre ad avere sei album contemporaneamente nelle classifiche americane. Dopo l’uscita, portarono a termine il decimo trionfale tour americano. A maggio suonarono cinque set consecutivi da quattro ore, tutti esauriti, all’Earls Court Arena, ventimila posti a un passo da Hyde Park. L’apice non era dietro le spalle, era quello. Gli Zeppelin non erano mai stati tanto potenti e sicuri di sé, e anche la critica più ostile trattò quel doppio vinile con lo stesso rispetto che aveva riservato agli altri che avevano segnato la storia del rock britannico, dal già citato White Album a Quadrophenia a The Lamb Lies Down on Broadway.

Dopo Physical Graffiti iniziò la caduta, con una serie di passi a vuoto artistici (mai commerciali, beninteso) e soprattutto tragedie personali, iniziata con il grave incidente occorso a Robert Plant nell’estate 1975 e terminata con la morte di John Bonham nell’autunno del 1980. Ma gli Zeppelin avevano già costruito il loro mausoleo musicale da lasciare ai posteri, dietro quella copertina leggendaria opera del designer americano Peter Corriston. Due palazzi fotografati a St. Marks Place, nell’East Village di Manhattan, che sarebbero diventati familiari per una generazione. Poco dopo lo scioglimento degli Zeppelin, nel 1981, i Rolling Stones pubblicarono il video del loro ultimo singolo, Waiting On a Friend: nelle prime scene, Mick Jagger attendeva Keith Richards sui gradini di quegli stessi palazzi newyorchesi. Un omaggio tra divinità del rock inglese, nate in anni che oggi sappiamo irripetibili.

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Classic Rock 12.01.2025, 14:00

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