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Basta un poco di Zukar

... e amerete l’hip-hop e il rap, o per lo meno sentirete l’insopprimibile bisogno di saperne di più, anche se ne siete completamente a digiuno

  • 5 maggio, 08:08
  • 5 maggio, 11:11
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Di: Alessandro Chiara

Tanto per capirci: quando ho parlato in redazione della mia scoperta dei Wu-Tang clan – uno dei gruppi hip-hop preferiti di Paola Zukar, manager di Fabri Fibra, Marracash, Madame – gli sguardi dei miei colleghi hanno oscillato tra l’affetto paternalistico e la malcelata reprimenda. E lì ho capito: mi mancavano proprio le basi del genere musicale.

Un genere che oggi è diventato talmente popolare da essere (quasi) invadente, ma che ancora troppo spesso viene guardato con una certa aria di sufficienza. Per esempio, da me. Quello ERO io. Paola Zukar mi ha cambiato. Se mai ci riuscirò, vorrei poter trasferire anche solo un briciolo dell’entusiasmo che mi ha trasmesso. 

Per me è stata lei l’epifania, per lei lo fu il fidanzatino afroamericano che ebbe a Washington alla fine degli anni ‘80 e che la introdusse al genere. Un genere che la conquistò per quel sentimento di rivalsa, “di sentirsi fighi anche con poco” contenuto nel suo DNA.  

Poi si sa come vanno le cose, si divaga prima di ritrovare la propria strada. Curiosamente, una delle sue divagazioni l’ha portata proprio in Svizzera, nel Canton Zugo, a insegnare italiano.

Chissà di cosa parleremmo ora, se Paola Zukar non avesse accettato una proposta di rientro che all’epoca non aveva molto di allettante, per il suo carattere intrinsecamente precario e incerto: andare a lavorare nella neofondata (da un amico) rivista dedicata all’hip-hop Aelle, nella sua Genova. Erano gli anni ‘90 e la popolarità dell’hip-hop (da cui il rap deriva) non era esattamente quella odierna: “era una cosa elitaria, non c’era neppure internet, che ne avrebbe favorito la diffusione” sottolinea Paola.

Elitaria era ed elitaria dopotutto doveva rimanere, almeno per un po’. “Ogni qual volta una cosa diventa di moda un po’ si snatura, soprattutto perché si avvicinano persone che non sono genuinamente interessate a quella cosa, ma sono interessate a essere lì dove c’è ‘il successo’. Negli anni Novanta c’era l’intenzione di proteggere il genere ed era giusto perché all’epoca poteva davvero essere sbrindellato. Ma avrebbe potuto anche implodere e rimanere una piccola cosa, di nicchia. Se è cresciuto e non è imploso è perché è stato raccontato bene, tradotto bene, codificato bene – come ho cercato di fare io nel mio lavoro e come hanno cercato di fare i primi che si sono avventurati su questo terreno: Fibra, Marra, Guè, Club Dogo. C’è stato alla fine degli anni Novanta un momento di ripensamento. Ci siamo chiesti dove stessimo andando e cosa avremmo dovuto fare per non implodere”.

Il resto è storia. Il rap oggi, dovutamente ingentilito, è arrivato a calcare il palcoscenico nazionalpopolare per eccellenza, quello di Sanremo.

“Come dicono gli americani: devi stare attento a quello che desideri, perché potrebbe avverarsi! D’altronde è il Festival della musica italiana e oggi non si può non dire che la musica italiana sia fortemente rappresentata per le nuove generazioni dal rap, dalle rime, da quel modo di fare” sottolinea. E cosa è rimasto oggi di quell’idea di rivalsa delle origini, dell’idea che ci si possa sentire “fighi” con poco? Il rap è ancora scomodo o dirompente?

“Questa è una domanda che si sono fatti tutti, fortunatamente ha ancora questa forza dirompente ed è cresciuto con il suo pubblico. Se oggi vai ai concerti dal vivo di Marracash, Fabri Fibra o Guè ci sono anche genitori coi figli, coi bambini. È vero che le tematiche si sono evolute. Prendi per esempio Marracash, con gli ultimi due album: Persona e Noi, loro, gli altri trattano di tematiche sociali con implicazioni quasi psicologiche, anzi senza quasi... psicologiche! Narcisismo o di questo grande tema della divisione/inclusione. Sono temi adulti, ma i ragazzi più giovani sono molto interessati a sentire qualcosa che li riguarda e qualcosa che li tiene agganciati all’attualità, alla realtà”.

Ed è sul terreno dell’appartenenza che si è consumato – per me – il mio definitivo abbandono al rap: il rap continua a essere scomodo, perché tra cicli, contaminazioni, scivolate “marchettare”, continua a tessere la rete di un’appartenenza e a riflettere sul concetto di appartenenza. 

“C’è una canzone bellissima di Marracash, che si intitola proprio Appartengo. E racconta visceralmente, in un modo molto sanguigno, che cosa significhi oggi appartenere per i ragazzi. È una domanda ancora più difficile oggi, che sei o puoi essere tutto sui social, puoi reinventarti in una persona completamente nuova, poi il tuo avatar può andare in paesi sconfinati, ti puoi vendere come ricco, come famoso, come intelligente. L’appartenenza secondo me è la cartina di tornasole dalla persona, cioè dell’identità vera che tu davvero vuoi. In Italia e nel mondo, tanti ragazzi delle periferie – che fanno fatica a ritrovarsi – hanno invece trovato finalmente trovato nel rap un’appartenenza”.

Allora come oggi, il rap offre un modo di essere comunità e trovare il proprio posto nel mondo.  

Paola Zukar

Cliché 03.04.2024, 21:55

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