Pare che ci sia, là fuori, gente adulta che desidera più di ogni altra cosa un nuovo album di Britney Spears.
Al di là di ogni considerazione critica riguardo a questo desiderio (il bello di un certo tipo di pop non è forse proprio il suo rimanere cristallizzato nell’ambra di una particolare epoca della nostra vita? Ogni tentativo di remake rischia di diventare una cocente delusione), quei fan si dovrebbero semplicemente mettere il cuore in pace: poche settimane fa la stessa Spears ha dichiarato che il suo futuro è da autrice. «Non tornerò mai nell’industria musicale», ha scritto su Instagram. «Sono una ghostwriter, e onestamente mi diverto così». Delle venti canzoni che dice di aver scritto per altri «negli ultimi due anni» non si sa niente, a dire il vero: perse in qualche registrazione che non ha mai visto la luce o, più probabilmente, pubblicate sotto pseudonimo? Sia come sia, quello che stupisce non è tanto la volontà di sparire dietro la musica, per un’artista la cui musica è spesso passata in secondo piano rispetto all’immagine pubblica – anche in tempi in cui questa era l’eccezione, e non la regola. Piuttosto, la persistenza dell’interesse nei confronti di quella che sembrava “solo” una popstar, e invece con il passare del tempo sta rivelando tutta la sua importanza. Oggi possiamo dire – non solo perché la parola è talmente inflazionata che non si nega più a nessuno – che Britney Spears sia stata, e sia ancora, una vera icona. Troppo? Eppure.
È il caso di ricordare come la sua immagine pubblica abbia rappresentato uno shock per la musica pop di fine Novanta, almeno paragonabile a quello provocato da Madonna a metà degli Ottanta. La strategia non appare neppure molto diversa da quella usata da Louise Veronica Ciccone quindici anni prima: essere provocante, allusiva, sexy. Ma quello, i cantanti pop – femmine o maschi che siano – l’han sempre fatto, non ci sarebbe granché di strano. Madonna prima e Britney poi hanno portato quel gioco un passo più avanti, utilizzando simboli della tradizione e sovvertendoli: la chiesa del video di Like a Prayer può essere sovrapposta, in questo senso, all’uniforme da scuola cattolica di Baby One More Time. Nel caso di Britney, il video ha suscitato polemiche perché ha svelato quanto un abbigliamento legato a valori tradizionali possa essere provocante – e il fatto che Britney avesse solo 17 anni quando ha girato quel video lo rendeva ancora più scandaloso agli occhi di alcuni: innocenza e sesso in un’unica immagine, al servizio dello spettacolo. Per la Spears quel passaggio era del resto fondamentale, e rifletteva un cambiamento di vita e di carriera: lei, come il collega/amico/amante Justin Timberlake, aveva già avuto una (relativamente) lunga carriera al servizio della Disney televisiva, e aveva bisogno di tagliare i ponti con il passato. È stata tra i primi a usare un’immagine ipersessualizzata come veicolo di emancipazione dalla casa di Topolino, molti l’hanno seguita negli anni successivi. Dopo Baby One More Time, due esibizioni agli allora seguitissimi MTV Video Music Award avrebbero cementato l’immagine trasgressiva di Britney Spears, insieme al suo status di star: quella in nude look del 2000 e soprattutto quella con un pitone albino sulle spalle nel 2001.
Essere stabilmente tra le più grandi popstar di una determinata epoca, tuttavia, non basta a raggiungere lo status di icona. Quello che fa la differenza, nel caso di Britney Spears, è il caso mediatico, l’intreccio narrativo drammatico, infine la capacità di far nascere un movimento quasi politico.
La creazione del caso-Britney
Il caso mediatico è quello costruito intorno a lei nel primo decennio del ventunesimo secolo: prima la relazione con Justin Timberlake, poi una serie di episodi che hanno messo in dubbio la sua salute mentale, infine la decisione di affidarla alla custodia legale del padre. Tutto raccontato dalla stampa prima, e poi – finalmente nella versione della Spears – all’interno dell’autobiografia arrivata nelle librerie solo qualche mese fa. Un volume dal tono inevitabilmente oscuro, che rende conto di una storia a dir poco drammatica, nonostante il denaro e la fama.
A tempi in cui faceva coppia con Timberlake, la pressione dei media era fortissima. Diceva Guccini molti anni prima «nemmeno dentro al cesso / possiedo un mio momento»: beh, nel caso di Britney Spears quella situazione era concreta, capitava che letteralmente non potesse neppure andare in bagno, senza essere seguita dai paparazzi. Le sue possibilità di influenzare la narrazione della storia con Timberlake erano pressoché nulle, e dopo la separazione della coppia, la stampa e il pubblico sembrarono addossarle ogni responsabilità di aver distrutto quel sogno perfetto per i rotocalchi (che ancora esistevano).
Gli anni successivi al 2003 sono stati se possibile ancora più caotici, e ancora più perfetti per foraggiare il racconto dei giornali. A ogni tentativo di controllo da parte dei familiari e delle case discografiche, corrispondeva un’esplosione di ribellione: la relazione (con tanto di figli) con il “cattivo ragazzo” Kevin Federlin, un ballerino dalla vita disordinata, gli attacchi fisici (per quanto spesso ai limiti del ridicolo) ai paparazzi, la decisione di radersi i capelli. Tutti letti come indizi di un declino psichico che l’hanno portata ad essere internata in una struttura per la salute mentale, e poi a subire la cosiddetta conservatorship, un genere di tutela legale riservata a persone incapaci di intendere e di volere. Tutore della cantante era il padre, che per tredici anni ha controllato la sua vita professionale, i suoi soldi – e perfino le sue relazioni, secondo quello che la stessa Spears ha raccontato.
A leggere il libro, si è trattato di qualcosa di simile a una prigione, e neppure dorata: costretta a un estenuante programma di esibizioni, a una dieta ferrea, e con uno stipendio di 2.000 dollari a settimana, a fronte dei milioni incassati con le sue performance. Britney ha detto di aver cercato diverse volte una via d’uscita, ma di non aver trovato alcun aiuto da parte dei familiari e neppure dai consulenti legali, molti dei quali venivano pagati profumatamente dal padre. Fino al timore che l’unica via d’uscita prevista per lei dai familiari fosse una morte redditizia (per loro, ovviamente). Difficile non vedere, oggi, una certa amara ironia in singoli di successo stratosferico di quel periodo come Work, Bitch.
La nascita di #FreeBritney
Il colpo di scena è arrivato solo nel 2019, quando la Spears è stata ricoverata nuovamente in una struttura psichiatrica. In quel momento molti fan sulle piattaforme social si sono chiesti se fosse stata davvero una sua scelta: nel giro di pochi giorni è nato l’hashtag #FreeBritney, che giocherà un ruolo cruciale nel portare Britney verso la fine della tutela legale, arrivata nel 2021. Nelle università americane (la Northwestern di Chicago, per la precisione), qualcuno si è preso la briga di studiare il modo in cui contro-narrazioni come #FreeBritney nascono sul web, provando quello che intuitivamente sapevamo già: queste storie influenzano anche i media tradizionali e possono diventare narrazione mainstream, se sono sostenibili. Non sempre, insomma, quello che nasce su internet è folle o falso. Nel caso di Britney Spears, un mucchio di commenti social è servito prima a ribaltare l’idea che la star fosse “fuori controllo, fuori di testa”, poi a cambiare le parole più frequentemente a lei associate nel discorso pubblico, infine a fare pressione su familiari e legali affinché accettassero la fine della tutela. Britney Spears è la prova vivente che quello che spesso si racconta riguardo al tempo in cui viviamo è vero: il mondo virtuale può diventare reale molto più velocemente di quello che pensiamo.
Britney Spears, la popstar liberata da internet? Forse è una lettura eccessiva. Tuttavia, la stessa Britney ha scritto che il movimento social è stato fondamentale per la risoluzione dei problemi legali con suo padre, e che quindi è profondamente grata a ogni fan che abbia partecipato.
E quindi, eccoci ancora al punto: una carriera sfavillante, una storia capace di catturare l’attenzione del pubblico attraverso i decenni, e perfino un caso di scuola. Tre indizi fanno una prova: Britney Spears è un’icona pop del ventunesimo secolo. Anche se, magari, da domani in poi non sentiremo più parlare di lei. Però domani: oggi (o meglio, il prossimo 15 febbraio) arriva su Netflix Crossroads, il suo debutto cinematografico del 2002, perduto e non disponibile in video da tempo. I fan sono già in attesa.