«Un bilancio ricco. C’è stata una bella atmosfera, qua a Milano, tra la direzione del teatro, i dipendenti e il pubblico». Dopo cinque anni, Dominique Meyer ha lasciato il ruolo di sovrintendente e direttore artistico della Scala. Un’avventura iniziata fra le difficoltà della pandemia, di cui, senza ignorarne la portata drammatica, evidenzia i risvolti gestionali più positivi: la salvaguardia della salute dei dipendenti, la tutela della loro situazione finanziaria e l’equilibrio dei conti, nonostante le tante rappresentazioni cancellate e una perdita sui ricavi da biglietti di 29 milioni di euro.
Un quinquennio di innovazioni tecnologiche ed ecologiche, all’insegna dell’accessibilità per le persone disabili, del risparmio energetico, di un’acustica migliorata e di un canale tivù per seguire gli spettacoli in streaming da tutto il mondo. Una conduzione che non gli ha risparmiato critiche, in particolare riguardo le soluzioni popolari adottate - sostengono alcuni - preferendole talvolta a quelle più ricercate. Il manager francese replica che la Scala ha il diritto di presentare titoli famosi come Rigoletto, Don Carlo o la Turandot. Ricorda che questi spettacoli sono stati bilanciati, in sede di programmazione, con opere più rare, come La rondine o Medea, o di musica contemporanea, come La tempesta di Thomas Adès. Risponde dunque alle accuse e contrattacca sulla parola “popolare”, che non gli piace per via del sottotesto elitario insito in queste valutazioni «perché non vedo in quale modo lasciare entrare gli spettatori in un grande teatro sia una cosa “sporca”. Al contrario, ho voluto aprire le porte di questo teatro».
L'uomo dei record: Dominique Meyer
Voi che sapete... 20.02.2020, 14:32
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Prima di approdare alla Scala, Meyer ha ricoperto incarichi di direzione alla Staatsoper di Vienna, al Théâtre des Champs-Élysées e all’Opéra National di Parigi, oltre che all’Opera di Losanna. Nel capoluogo vodese, dalla scorsa estate è direttore esecutivo dell’Orchestra da Camera cittadina. È stato consigliere in seno al governo francese e nell’arco della sua esperienza ha avuto modo di osservare il rapporto fra politica e cultura, realtà che non si possono pensare come separate. «Noi direttori di teatri, musei, eccetera, siamo nominati dalla politica. Quindi già l’indipendenza è un concetto un po’ particolare» osserva, «Penso che la politica a volte non veda il sostegno alla cultura come un dovere. Sono stato anche consigliere di due primi ministri, quindi la politica la conosco da vicino: una volta eletti, si vedono troppo come proprietari, come capi». Secondo lui, capi di stato e di governo «dovrebbero avere un atteggiamento diverso, dovrebbero sentirsi al servizio del paese».
Degli altri traguardi raggiunti durante i suoi cinque anni alla Scala e della sua visione della lirica, Meyer ha parlato a Montmartre, su Rete Due, nell’intervista di Luisa Sclocchis.
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