Fin dal nome d’arte che si è scelto, Jacopo Incani mostra di saper piegare parole e suoni a suo piacimento. Perché Incani produce dischi con lo pseudonimo di Iosonouncane. Alias che il musicista sardo forse oggi non sceglierebbe più. «Rientra nella sfera delle cose che uno, arrivato ai quarant’anni come me, rimpiange di aver fatto. Nel senso che è un nome d’arte un filo troppo bizzarro» osserva. Il senso c’era tutto ai tempi dell’esordio, quando nel presentarsi al pubblico evitava di mostrare il suo volto preferendo ritratti di cani. Piano piano, la narrazione costruita attorno alla figura del cane ha perso il legame con il suo immaginario ma il nome è rimasto. Il suo primo LP è stato La macarena su Roma (2010, finalista al Premio Tenco) a cui è seguito Die (2015, Targa Tenco come disco dell’anno). Ha scritto musica per il cinema (Berlinguer - La grande ambizione, il documentario Lirica Ucraina), mentre il suo ultimo album fin qui è Ira (2021). Quest’ultimo è una commistione di lingue di cui ha spiegato origine e scopi a Moby Dick, ospite di Francesca Rodesino.
Ira suona come un lavoro musicalmente radicale, una Babele in cui frammenti di francese, arabo, spagnolo, inglese si mescolano per creare una nuova lingua. «Sono partito dall’idea di voler raccontare la traversata dell’Europa fratta da una moltitudine di esseri umani di varia età e genere. Volevo restituire pienamente il senso di sradicamento, di estraneità, di spaesamento, di solitudine». Incani ha deciso di rinunciare a una lingua immediatamente comprensibile per avere «non una neolingua, quanto piuttosto un tentativo linguistico» e «un disco i cui testi sono anzitutto orali». Parole pensate fin da subito come una lingua parlata che va capita. «È il tentativo di questa moltitudine di esseri umani di comunicare fra loro e comunicare con l’esterno rispetto alla loro comunità» spiega, aggiungendo di aver cercato un suono che non fosse quello dell’italiano, «Scrivevo delle melodie nelle quali, in un qualche modo, giocavo con ipotetici suoni dell’arabo, dell’inglese, del francese o dello spagnolo. Io non parlo nessuna di queste lingue. Questa cosa mi ha permesso di arrivare a scrivere come immaginavo e come so che ci si esprime nel momento in cui ci si trova a essere estranei».
Nel disco è racchiuso l’intento di «rivendicare la possibilità di non essere capiti. La possibilità, soprattutto, di non capire immediatamente. Credo sia fondamentale nell’esercizio delle relazioni con gli altri: ammettere la possibilità che non subito si debba comprendere tutto». Incani è consapevole che queste canzoni non siano un’esperienza d’ascolto semplice; non è, insomma, un disco commerciale. È un riflesso della sua motivazione a scrivere musica, che nasce dentro di sé: «Sono convinto da determinate cose da volerle rivendicare rispetto a me stesso».
Babele inventata
Moby Dick 15.03.2025, 10:00
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