Questo non è solo un disco, ma una sorta di esperienza sinestetica. Giacché i locarnesi Houstones hanno deciso, per il loro terzo album A+C, di abbinare all’uscita una serie di bottiglie di Merlot del Ticino del 2021, prodotta da Matasci a Tenero. Ma intanto con il primo sorso Aristocrush è già partita e il sentore vivo ben si sposa con la voce di Saul Savarino, doppiata da Serena Maggini. Il suono è quasi liquido, come di un dolce ondeggiare in un rock screziato di acidulo. A+C è un titolo tanto misterioso quanto evocativo e qualcosa lo collega a delle presenze femminili, le ragazze che compaiono sulle grafiche del disco e nei loro video. Ambra e Clarissa si dice, quasi a timbro e a collegamento fra generazioni e mondi.
Per chi si fosse perso le prime uscite degli Houstones, possiamo soltanto dire che lo spettro delle loro influenze si è via via allargato e il progetto grunge psichedelico iniziale (che posso vantarmi di aver sostenuto come co-produttore dell’omonimo esordio) si è trasformato come uva in un boccato resistente e tenace, ma che ha dalla sua una freschezza inattaccabile. Ittero gioca con vagiti pop psichedelici, in una lingua che potrebbe addirittura essere italiano ma che la nostra coscienza riconosce solo in quanto abbinamento centrato. La batteria di Joel Pfister è insistita e cardiaca anche se non si esagera mai, lasciando scivolare ritmo e atmosfera nelle giuste dosi e quantità.
Houstones
Local Heroes 16.10.2024, 20:00
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Il materiale, registrato e prodotto dagli stessi Houstones insieme a Marco Fasolo, ha la consapevole maturità nel proporsi come orecchiabile, radiofonico pur rimanendo potenzialmente astringente, grintoso e corroborante nelle occasioni dal vivo a cui negli anni ci è capitato di assistere. La storia dell’incrocio fra band e produttore (o tecnico del suono) è quella classica che può essere applicata a non sappiamo quante occasioni. Nirvana e Butch Vig, Ramones e Phil Spector, Uzeda e Steve Albini. Inizialmente, lo ricordo bene, le tentazioni di Saul erano altre, guardava oltreoceano e interrogò perfino Chris Goss (storico produttore dei Kyuss e mente dietro al progetto Masters of Reality) per poi accorgersi di quanto avevano a portata di mano, nella vicina Padova. Una vita come membro fondatore dei Jennifer Gentle (il primo gruppo italiano ad incidere per Sub Pop, tanto per citare uno dei traguardi raggiunti in più di vent’anni di attività) e attualmente coinvolto nel progetto I Hate My Village, che condivide con Adriano Viterbini, Alberto Ferrari e Fabio Rondanini. Due fasi di registrazione, a Losone e Brescia, per una continuità e una dinamica che sono l’ossatura di A+C. Con la sua presenza, l’amore di Saul Savarino per il mondo beatlesiano si esprime in tutta la sua grazia, sgrassando il superfluo e lasciando un suono classico, pop e orecchiabile, completamente fuori dal tempo. Parliamoci chiaro, ricordate qualche buona band ascrivibile al grunge negli anni Duemila? Non pensateci troppo, son pochissime, gli Houstones sono definitivamente una di queste.
Gli otto brani toccano lo scibile del rock, più aperto e serrato, con la voce del frontman Saul Savarino che negli anni è cresciuta fino a diventare personale, perfettamente credibile senza sembrare versione ridotta o cosplay dei vocalist ai quali si è ispirato. L’incrocio uomo-donna dona spesso ai brani una dinamica drammatica ben sostenuta da una ritmica che non molla un colpo grazie a Maurizio Cuomo, che rintuzza a suon di basso il viaggiare della band. Band che è nata come progetto che Savarino ha plasmato negli anni e che ad ogni stazione o fase espressiva ha saputo aggiungere sfumature al proprio essere. A+C è un disco maturo, lo si capisce dai piccoli accorgimenti che Marco Fasolo e gli Houstones ci regalano fra le righe, dall’ampiezza e dalla luce che da queste canzoni escono. Sembra quasi, mi si permetta tra un sorso e l’altro, che su un telaio prettamente rock ci si sia premurati di accostare tocchi non ricercati né eleganti, ma legati a un’ottica spectoriana o beatlesiana, su una melodia aperta, universale e luminosa. A non mancare in questi brani, si sentano le tortuosità di Adderall ad esempio, sono la personalità e il pathos, che fanno degli Houstones un gruppo completo e credibile.
Già, ché io me lo ricordo il riflusso grunge, certo che me lo ricordo, anche quando andava pericolosamente a flirtare sul pop, così come mi ricordo ciò che successe quando dal Rancho de la Luna dei primi due album i Queens of the Stone Age iniziarono a circumnavigare su sé stessi. Su Big Penis (It seems nothing can keep us together) il bicchiere piange, Serena entra con fare da sirena ed il rabbocco arriva sui vocalizzi di Saul. Poi ci sarebbe anche tutto il necessario per ballare sullo stacco strumentale che mischia inflessioni ’70, elementi fiatistici e groove rafforzati dal ritorno al canto che si fa quasi tribale, ad aprire flussi ed energie.
Qualche biscottino a dare solide fondamenta allo stomaco, mentre le voci lasciate in sottofondo, il songwriting acustico e quella che sembra una tromba giocattolo portano il brano a compimento, centro nevralgico e snodo del disco. In Squeeze, Serena prende il proscenio e chiudendo gli occhi potrebbero tornare anche in mente le storiche Shakespeare’s Sisters, rette da un pianoforte fiabesco e da un andamento che l’entrata di Saul in qualche modo stravolge, a turbare un momento ormai irripetibile come orco, come tazzino ingollato in un sorso.
In Fiesta Forever torna la lingua italiana ma colpisce come suono, come urlo, come sfogo rock da capello lungo con quello struggimento al cuore, materia che colpisce se è dosata ma può intaccare denti e glicemia se appena appena è fuori misura. Qui funziona, si potrebbero scatenare diversi passi fra il Mono Bar ed il Titty Twister, ma è già tempo di chiusura, di ultimo brindisi e di rientro. Un Merlot del Ticino, un disco rock, un duo che insieme crea atmosfera e fa viaggiare, proprio come una bella storia.
Houstones: vino in omaggio con nuovo disco
Local Heroes, Rete Tre 22.01.2025, 20:00
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