Musica pop

La bassa fedeltà per sfuggire all’Industria

Più che un genere musicale, il lo-fi è un modo per mettere in evidenza le esagerazioni della produzione discografica. La cassetta come supporto d’elezione

  • Oggi, 11:04
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Care, vecchie - vecchie a chi?! - cassettine

  • Imago/Panthermedia
Di: Red. 

Lo-fi, che tradotto in italiano diventa bassa fedeltà. Nella musica essere lo-fi non è una questione di genere ma, piuttosto, di attitudine. Sono lo-fi l’hip hop e l’elettronica che viaggiano su cassetta, lo è il punk hardcore più sporco e cattivo, lo sono (tra uno iato e l’altro) gruppi come i Pavement, lo è stato il primo Beck così come il Bugo degli inizi, quello che intitolava il suo terzo album Dal lofai al cisei. Ci è passato in qualche modo perfino Bruce Springsteen, quando si registrò Nebraska da solo a casa, con pochi mezzi ma sinceri. E poi potremmo citare ancora le centinaia e centinaia di band che troviamo in rete, ognuna con la sua bella pagina Bandcamp o il profilo Soundcloud. È la musica da cameretta, definizione ispirata al luogo (a volte mitico) dove questi artisti svolgono le sessioni di registrazione.

In principio fu il “do it yourself” del punk, con i gruppi che si producevano da sé i dischi provvedendo pure alla loro distribuzione. Da quell’esperienza sono nate case discografiche di tutto rispetto (la Dischord di Ian MacKaye ne è emblema, ma non è l’unica). Lo stesso milieu punk nel quale sono nate le fanzine, riviste per appassionati autoprodotte. Non divaghiamo troppo, però, e cerchiamo una definizione per la musica a bassa fedeltà. «Lo-fi è tutta la musica registrata male». La sintesi è di Enrico Monacelli, autore del libro Bassa fedeltà. Musica lo-fi e fuga dal capitalismo, intervistato su Rete Due all’interno del dossier che Alphaville ha dedicato a questo modello di creazione artistica. 

Registrare la propria musica consegnando alle orecchie un suono non rifinito, pieno di sporcature, è una scelta politica? «Forse politico è un termine un po’ stretto. È quasi una sfida lanciata all’esistenza normale». Per Monacelli, nelle produzioni a bassa fedeltà è il modo in cui si registra a rappresentare la vera questione: «Del lo-fi non si parla tanto delle melodie, della canzone, del ritornello. Si parla degli strumenti, dei mezzi di produzione con cui facciamo musica pop o rock». È musica da smanettoni che vogliono «hackerare il modo in cui la musica viene fatta». 

Fuggire per richiamare l’attenzione: per Monacelli il lo-fi non è «un modo per mettere in questione le pratiche e le cose per come vanno normalmente». Tutta la filiera della musica pop - produzione, distribuzione, marketing - viene messa in evidenza «quando ascoltiamo un disco lo-fi proprio perché registrato così male, proprio perché c’è quel fastidio di qualcosa che non è prodotto come siamo abituati. Tutto quel grande sistema, quella catena di produzione viene messa in discussione e soprattutto diventa evidente». Viene portato a galla il meccanismo - sottinteso: elefantiaco e pomposo - con cui questa normalità è prodotta. E allora perché non cercare un modo diverso di fare le cose?

17:46

La musica da cameretta, ovvero la rivolta del suono sporco con Enrico Monacelli (5/5)

Alphaville 24.01.2025, 12:05

  • Keystone

Ci sono supporti che per una qualche affinità possono ospitare più calorosamente la bassa fedeltà musicale? La risposta forse la troviamo fra le spire formate dal nastro dell’audiocassetta. Che è tornata, in versione ridotta in quanto a diffusione, ma è tornata. Soprattutto nel mondo delle etichette indipendenti. Nella Svizzera italiana, così, su due piedi, viene in mente il catalogo di Old Bicycle. Attenzione però a non fare l’equazione cassetta=bassa fedeltà intendendo una scarsa qualità del prodotto. Sarebbe fuorviante. È, ancora una volta, un modo per resistere a certe esagerazioni dell’Industria (sì, con la i maiuscola così suona più imponente).

In Italia c’è ad esempio la Dirt Tapes, che produce soltanto su cassetta ed è l’etichetta di Karim Qqru, batterista degli Zen Circus, che sempre ad Alphaville ha raccontato la sua esperienza con la musicassetta. «Io sono nato nel 1982, e la musicassetta rappresenta il supporto attraverso il quale ho imparato a conoscere la musica e a vivere la connettività della musica, quindi scambiarsi musica con gli amici. E ho imparato a suonare attraverso le cassette». Una passione mai scemata per lui, che non ha abbandonato la nave nemmeno a inizio Duemila, gli anni del tracollo in termini di produzione di massa. Non ha smesso di comprarle «non per feticismo o nostalgia ma per abitudine» e anche per avere musica su supporto, perché secondo lui ci vuole.

La musicassetta era, negli anni Ottanta (decennio in cui le vendite toccarono l’apice), anche un modo per scambiarsi musica fra adolescenti squattrinati, che si copiavano i dischi su nastro. Un tipo di condivisione carbonara che l’ha resa «il supporto d’elezione per la trasmissione della musica». E non solo per questo.

Perché c’è tutto un sottobosco, come l’industrial o alcune forme del metal, per le quali questo supporto non è mai tramontato. Questo perché la pasta sonora del nastro è quasi connaturata a questi stili musicali. Anche Qqru fruisce della musica attraverso le tecnologie digitali, ma poi ne ascolta da supporti fisici come, appunto, la cassetta: «Nella vita di oggi, schizofrenica, sparata a mille ogni giorno, c’è una volontà a tornare a toccare le cose, a possedere soprattutto le cose». Scegliere un’altra strada rispetto al tutto-e-subito (e spesso usa-e-getta) della musica cosiddetta liquida, che è «l’aver tutto ma non avere niente». Un’epoca curiosa, conclude, Qqru, perché «questo ritorno sicuramente ha un qualcosa legato all’estetica, anche alla moda» ma non è sempre così perché «c’è tanta gente che le ascolta, le cassette». Insomma, c’è ancora tanta musica da incidere su nastro.

15:35

La cassetta con Karim Qqru (2/5)

Alphaville 21.01.2025, 12:05

  • Keystone

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