The Last Waltz con la Band, certo. Ma anche Stop Making Sense con i Talking Heads, Depeche Mode: 101, Sign O’ the Times con Prince, The Decline Of Western Civilization con tutta la scena punk di Los Angeles. E naturalmente, Woodstock. Il film-concerto (che diventa film-tour, in alcuni casi) è una grande tradizione del cinema americano, e per capirlo basta pensare alle firme sui titoli appena citati, da Martin Scorsese a Jonathan Demme.
Fin dagli anni Cinquanta, i documentari-concerti sono stati tenuti in grande considerazione da pubblico e critica: Jazz on a Summer’s Day, con Louis Armstrong e Chuck Berry al Newport Jazz Festival del 1958, è conservato nel National Film Registry; Festival di Murray Lerner, girato al Newport Folk Festival tra 1963 e 1966, è stato candidato agli Oscar nel 1968. Gente come i fratelli Maysles e D.A. Pennebaker hanno fatto epoca con i loro film girati con occhio antropologico.
Oggi i tempi sono cambiati, ma le star americane continuano a puntare molto sul cinema: il 2023 lo ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio, con i successi mostruosi di Taylor Swift: The Eras Tour e Renaissance: A Film By Beyoncé, il secondo uscito neanche un paio di settimane fa. Due film che documentano i due più importanti tour musicali dell’estate, entrambi con una durata apparentemente eterna (appena sotto le tre ore, mediamente la stessa dei concerti che raccontano), entrambi distribuiti dal gigante delle multisale americane AMC. Entrambi capaci di staccare una quantità notevolissima di biglietti, anche se i primi dati dicono che è stata la Swift a trionfare – e con distacco – in questa gara di star power: poco più di venti milioni di dollari incassati da Beyoncé Knowles-Carter nel primo weekend di programmazione, poco più di novanta da Taylor.
Beyoncé: il duello cinematografico con Taylor Swift
Dunque, il duello nei cinema l’ha vinto Taylor Swift. Ma anche in questi tempi così propensi alla semplificazione e poco interessati alla riflessione, cerchiamo di ricordarci che l’arte non si misura coi numeri, neanche quando si parla di musica pop.
Non possiamo sapere se tra mezzo secolo Beyoncé – una volta storicizzata – sarà i Velvet Underground (poche copie vendute, importanza capitale) o i Monkees (75 milioni di dischi non bastano, per diventare leggenda). E tuttavia possiamo dire fin d’ora che almeno lei ci sta provando, a portare il suo genere verso un nuovo stadio dell’evoluzione, e lo sta facendo con tutti gli strumenti che ha a disposizione, cinema compreso.
Cinema che sembra essere uno dei pezzi più importanti del puzzle di questa star, che ha scelto di lavorare sulla costruzione di un apparato capace di garantirle la fama ancora più che sulla voce – che peraltro, lo ammetteranno anche i detrattori più radicali, non le manca. Beyoncé ha praticamente sostituito con il cinema le tradizionali apparizioni sui media: arrivata al vertice dell’intrattenimento americano, ha infatti deciso di ridurre quasi a zero le interviste. Per continuare a raccontare se stessa – ovviamente, mantenendo il totale controllo della narrazione – ha utilizzato il cinema. Così, prima il meno interessante Life Is But a Dream del 2013, poi il notevole Homecoming del 2019, hanno cercato di realizzare l’obbiettivo della performer: mostrare al pubblico quanta fatica e quanto impegno comporti il lavoro di essere Beyoncé.
Essere Beyoncé è un lavoro duro
Infatti Renaissance segue l’esempio di Homecoming, che quattro anni fa ha raccontato la preparazione della performance al Coachella del 2018: quella portata sul palco a nove mesi di distanza dalla nascita dei due gemelli Rumi e Sir; quella che ha richiesto una preparazione fisica paragonabile solo a quella di un atleta di livello olimpico. Il perfezionismo e l’abilità manageriale sono del resto parte integrante dello storytelling – perdonate l’uso continuo di parole figlie del marketing contemporaneo, ma tant’è – che Beyoncé si è cucita addosso. Renaissance porta però quella narrazione ancora oltre: non solo racconta (per quanto possibile, per carità: ovviamente il centro dell’universo è sempre la signora Carter, che prende tutte le decisioni finali) gli uomini e le donne che hanno messo insieme quel mastodontico tour. Arriva perfino a sostenere che quelle stesse persone, professionisti di altissimo livello, possono diventare anche ostacoli, quando si ostinano a non seguire le indicazioni del capo – cioè, lei. Il film mostra gente (prevalentemente uomini, sottolineano le immagini) che dicono alla star che le cose che lei chiede non si possono fare. Parlando alla cinepresa, Beyoncé chiosa «Sento che, siccome sono una donna nera, il modo in cui la gente comunica con me è diverso... Tutto diventa una lotta. È quasi come una battaglia contro la tua volontà», mettendo poi in evidenza che, questa battaglia, lei la combatte fin dall’inizio della sua carriera.
Chiaro che è difficile credere alla narrativa della più grande star vivente della musica pop che deve lottare contro i pregiudizi di alcuni suoi dipendenti: andreste voi da Giorgio Armani a dirgli che forse quel tono di blu è troppo scuro, andreste voi da Martin Scorsese a dirgli che forse quella voce fuori campo potrebbe risultare fastidiosa per qualcuno? Credo di no. Tuttavia, quelle immagini sono fondamentali: servono a offrire quel poco di fragilità (e perfino vittimismo) che deve necessariamente accompagnare la fama universale in questa epoca. Si può essere divinità, ma bisogna ricordare al pubblico che dentro quella divinità c’è un essere umano, a volte perfino simile alla gente normale, fatti salvi i miliardi in banca. È semplicemente necessario per la nostra epoca, e Beyoncé, come tutti i geni della comunicazione contemporanea, ne è perfettamente consapevole.
Renaissance e il Gesamtkunstwerk del pop
Renaissance però non si limita a sottolineare l’umanità della diva, né la fatica necessaria per la costruzione degli incredibili spettacoli knowlesiani. Il film cerca infatti di dare spazio anche agli altri, non solo nel senso di “ostacolo al regno di una tiranna illuminata che sa cosa è meglio per tutti”. Operai, tecnici e collaboratori vari appaiono spesso: lo spettatore fa la conoscenza dello storico animatore della scena ballroom di Philadelphia, Kevin JZ Prodigy, che fa da voce narrante di ogni concerto, e di Crystal Rovél Torres, trombettista che non ha esitato a esibirsi nonostante la gravidanza. Molto spazio all’interno del minutaggio, soprattutto, è dedicato ai fan delle prime file: vestiti da gran sera, impegnati nelle stesse coreografie eseguite sul palco. Si dice che, nelle città americane, a ogni data del tour di Beyoncé estetisti e parrucchieri abbiano il tutto esaurito per giorni, che i negozi di abbigliamento vedano le vendite impennarsi. Non si fa fatica a credere a queste statistiche. E che Beyoncé sia riuscita a convincere il suo pubblico a trasformarsi davvero in una parte importante dei suoi concerti – ormai definiti da molti la realizzazione dell’ideale del Gesamtkunstwerk – è solo un’ulteriore testimonianza della sua potenza di star.
Il destino dei concertoni
Voi che sapete... 16.05.2023, 10:00
Contenuto audio