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The Blue Nile, come una band diventa leggenda

ll trio di Glasgow capitanato da Paul Buchanan compie 40 anni

  • 02.04.2024, 11:30
  • 02.04.2024, 20:24
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Di: Mattia Mantovani 

Ci sono parecchi modi per diventare una cult-band. Il modo scelto dai Blue Nile, il trio di Glasgow capitanato da Paul Buchanan, è molto strano e soprattutto significativo, perché fornisce una possibile risposta al celebre interrogativo posto da Nanni Moretti in una memorabile scena di Ecce Bombo: «Che dici, vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo… Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce…». Nel gran baraccone del rock’n’roll e dello show-business (ma anche della vita, in ultima analisi), dove è facilissimo bruciarsi per la troppa e troppo frequente esposizione, oppure trasformarsi in macchiette e controfigure di sé stessi, i Blue Nile hanno bensì scelto di apparire, ma tenendosi costantemente in disparte. Non proprio “vicino a una finestra di profilo in controluce”, ma quasi.

Sembrerà forse un paradosso, eppure è precisamente per questo motivo che possono essere considerati la band più cult tra tutte le cult-band. In vent’anni di attività, dall’aprile del 1984, quando esordirono con l’epocale A Walk Across The Rooftops, fino all’autunno del 2004, quando il loro percorso si è chiuso in gloria con la pubblicazione di High, i Blue Nile hanno infatti pubblicato soltanto quattro dischi (nel mezzo ci sono Hats e Peace At Last, usciti nel 1989 e nel 1996) e nel complesso si sono fatti vedere poco, anzi pochissimo: lunghi silenzi tra un disco e l’altro, qualche apparizione televisiva, alcune brevi tournée e una manciata di video promozionali. Nient’altro, ma più che sufficiente a creare intorno al gruppo un’aura quasi mitica. La pubblicazione nel 2012 di Mid Air, il disco da solista di Buchanan (l’anima del gruppo, oltre che il front-man), ha avuto l’effetto di dare ulteriore linfa a una leggenda che nel frattempo si era tutt’altro che sopita.

La storia comincia nel 1982 in quel di Glasgow (che nel brano “originario” della band, contenuto nel primo disco, diventerà Tinseltown In The Rain, qualcosa come “città dorata nella pioggia”, con un chiaro riferimento ironico) e si svolge prevalentemente all’interno di un perimetro che racchiude sei luoghi ben precisi della città sul fiume Clyde: un appartamento di Otago Street, nella zona del West End, dove il gruppo ha inciso i primissimi demo e poi il disco d’esordio; la vicina Hermon Baptist Church, raffigurata sulla copertina di A Walk Across The Rooftops; la nuova sede in stile neogotico dell’antica e prestigiosa università; la Royal Concert Hall, dove nel 1990, l’anno dopo la pubblicazione di Hats, i Blue Nile hanno tenuto uno storico concerto che ha sancito definitivamente il loro status di cult-band, e infine Byres Road e Gibson Street, due strade che racchiudono l’anima più profonda e cosmopolita di Glasgow e hanno fornito lo spunto per la già ricordata Tinseltown In The Rain e per i sette brani “notturni” di Hats.

I tre protagonisti, la cui prima conoscenza risale agli anni degli studi universitari, sono Paul Buchanan (voce e chitarra), nato il 16 aprile del 1956, laureato in letteratura e storia medievale (per un breve periodo, prima di dedicarsi interamente alla musica, ha sbarcato il lunario come supplente in vari istituti superiori della città), Paul Joseph Moore (tastiere e campionamenti), nato il 19 marzo del 1957 e laureato in elettronica, e infine il bassista Robert Bell, laureato in matematica, nato il 22 agosto del 1952. Come dicevano gli Scolastici: Nomina ante res, «Le parole precedono le cose». Prima di incidere il disco d’esordio, per Buchanan e compagni giunge il momento di trovare un nome per la band.

La scelta cade su The Blue Nile, ed è una scelta azzeccatissima, perché la denominazione, oltre che molto evocativa, sintetizza alla perfezione l’essenza della proposta musicale del gruppo: l’esplorazione di nuovi territori e l’abbattimento di alcune barriere, in particolare quella che divide la musique concrète e le tradizionali strutture compositive del pop-rock, con l’inserimento di suggestioni prese dalla musica sinfonica, dalla Scena di Canterbury e da certi esiti del Krautrock (Kraftwerk, ovviamente, ma anche Cluster, Can e Tangerine Dream). The Blue Nile, letteralmente Il Nilo azzurro, è infatti il titolo di un libro del 1962 di Alan Moorehead, che ricostruisce in maniera romanzata le esplorazioni nella parte superiore del Nilo compiute nel corso del diciannovesimo secolo, ma l’espressione può essere tradotta in senso più ampio con Il fiume della malinconia.

I venticinque brani contenuti nei quattro dischi pubblicati dai Blue Nile (ai quali bisogna aggiungere le facciate B dei singoli e le quattordici tracce del disco da solista di Buchanan) costituiscono nel loro insieme altrettante tappe di un ideale percorso lungo il fiume della malinconia, tra atmosfere notturne, cuori infranti, amori finiti, città sotto la pioggia, luci che si intravedono nella nebbia e nella foschia, lenti ritorni a casa, lontananze da dove. Se Tinseltown In The Rain è il brano “originario” insieme alle famose Downtown Lights e Let’s Go Out Tonight (seconda e terza traccia di Hats), il brano maggiormente rivelatore è invece Happiness (la traccia di apertura di Peace At Last), con un giro armonico di classica semplicità, poi variamente imitato, e un testo che ruota intorno a un’idea di “felicità” molto particolare, perché coincide con la quiete e il silenzio, più in generale con una pace finalmente conquistata (Peace At Last, appunto) ma non meglio definibile e dalla durata incerta.

Blue Nile, nella sua accezione di fiume della malinconia, indica insomma un sentimento del tempo che si esprime sottotraccia e si regge su un delicatissimo quanto sofisticato equilibrio tra parole e musica, tra l’inconfondibile cantato di Buchanan (il cui timbro vocale, pur con una minore estensione, è molto simile a quello di Frank Sinatra e Tony Bennett) e i paesaggi sonori creati da Moore e Campbell. I Blue Nile, in questo senso, hanno veramente fissato un “prima” e un “dopo”: prima di loro non si era sentito pressoché nulla di simile, dopo di loro sono stati in tanti ad abbeverarsi con profitto alle sorgenti sonore del “fiume della malinconia”, da Peter Gabriel alla Rickie Lee Jones di Flying Cowboys, solo per citare due nomi tra i più celebri.

A Walk Across The Rooftops, come suggerisce il titolo, sembra davvero “una passeggiata sui tetti” di una città notturna e piovosa, con precipizi sonori che si aprono e chiudono in ciascuno dei sette brani e un suono essenziale quanto ricercato, che riesce nell’impresa di tenere insieme due estremi apparentemente inconciliabili come il pop-rock dei Beatles e il soul Motown di Marvin Gaye, utilizzando come collante la musica colta di Mahler e Bartók filtrata dal minimalismo di Terry Riley. Come se non bastasse, gli archi della Scottish National Orchestra, arrangiati in chiave synth-pop, producono effetti originalissimi ma talora disorientanti. Si capisce subito, infatti, che il disco è molto importante e suona diverso da tutti gli album del periodo, ma risulta difficile inquadrarlo, tanto che una celebre rivista musicale italiana parlerà di A Walk Across The Rooftops come disco-music per ascoltatori in vena di “elucubrazioni mentali”. Niente di più sbagliato.

E’ comunque impossibile non rimanere disorientati da un brano come il singolo Stay, nel quale le sonorità tipicamente orchestrali e talune impensate slogature ritmiche sostengono un andamento che a un ascolto distratto potrebbe risultare banalmente dance. Anche gli altri sei brani non aiutano, se si pensa che in poco meno di quaranta minuti coesistono il pop-funk elettronico della title-track e Tinseltown In The Rain, il suono astratto e minimalista di From Rags To Riches, una sontuosa ballata per piano a voce come Easter Parade, a mezza via tra Sinatra e Tom Waits, le sonorità etniche di Heatwave e il groove industriale e un po’ à la Joy Division della conclusiva Automobile Noise, che porta quasi a piena realizzazione il celebre e volutamente provocatorio assioma di Brian Eno: il pop-rock, per sopravvivere, deve inglobare la dance- music e gli elementi classici.

Se non è la perfezione, poco ci manca. E infatti la perfezione arriva cinque anni dopo, nel 1989, con Hats. Il numero delle tracce è identico, la durata è pressappoco la stessa, ma la policromia del disco d’esordio si stempera e viene infine totalmente assorbita dal nero e dall’oscurità della notte, mentre le slogature ritmiche di A Walk Across The Rooftops si compongono in un suono che tende appunto alla monocromia ma nello stesso tempo è più arioso e si regge su un continuo dialogo tra soul, elettronica, pop d’autore e rock. Le tracce del disco, dall’iniziale Over The Hillside alla conclusiva Saturday Night passando per Downtown Lights, Let’s Go Out Tonight, Headlights On The Parade, From A Late Night Train e Seven A.M., sono state giustamente definite un collage di sette mini-sinfonie, ma sono anche interpretabili come i sette episodi o frammenti di un film della durata di circa quaranta minuti, ambientato tra le luci, i fumi, le ombre e le solitudini notturne di una Tinseltown che potrebbe essere Glasgow, ma anche New York o qualsiasi altra metropoli.

Rispetto al disco d’esordio, in Hats tutto è maggiormente calibrato e messo a fuoco: la voce di Buchanan è più profonda, con un’impostazione decisamente soul, le sonorità elettroniche sono più calde e avvolgenti, le linee del basso dettano e sostengono il ritmo più che spezzarlo, mentre gli arrangiamenti orchestrali danno all’insieme una speziatura di romanticismo che è già post-romanticismo, perché il disincanto viene tenuto costantemente in sottofondo o in tonalità minore, si vorrebbe quasi dire in sordina, come le lontane note di tromba che affiorano qua e là verso la fine e torneranno quindici anni dopo nell’outro di Because Of Toledo. Insieme a Spirit Of Eden dei Talk Talk, uscito l’anno prima, Hats è per opinione condivisa il disco più bello della seconda metà degli anni Ottanta e tra i dischi più importanti della storia del rock.

Replicare o perfino avvicinarsi a un capolavoro assoluto come Hats è impossibile, ma gli ultimi due episodi dell’epopea dei Blue Nile reggono molto bene il confronto. In Peace At Last, che esce nel 1996 dopo uno iato di sette anni, Buchanan e soci scelgono una via parzialmente diversa: l’impronta soul ed elettronica è sempre dominante, ma non mancano sconfinamenti nel gospel riletto con sensibilità pop-rock (la già citata Happiness, che si chiude con un coro spiritual), tipiche ballate acustiche in uptempo come Tomorrow Morning e Love Came Down, perfino un funky alla Neil Rodgers come Sentimental Man e il soul “sintetizzato”, se così lo si può definire, della straniante Holy Love. Il punto di raccordo tra il precedente Hats e il successivo High è rappresentato da Family Life, con uno straordinario intreccio di piano, voce e archi. Forse è la canzone più bella scritta da Buchanan, sicuramente è la più triste. Lo stesso Buchanan si ripeterà otto anni dopo con la title-track di High e un’interpretazione, se mai possibile, ancora più intensa e sofferta.

La storia ufficiale dei Blue Nile si chiude nel 2004 con la pubblicazione di High, che ha il non trascurabile merito di riassumere in nove tracce e quaranta minuti scarsi il meglio del ventennio di attività del gruppo, consegnandolo a futura memoria. La monocromia di Hats torna infatti in tracce molto “notturne” come l’iniziale The Days Of Our Lives, I Would Never, l’acustica Because Of Toledo e She Saw The World, le slogature ritmiche di A Walk Across The Rooftops ricompaiono in Broken Loves e in Everybody Else, i richiami al soul, fin dal titolo, si profilano nella ballata ipnotica Soul Boy, mentre la conclusiva Stay Close condensa in poco meno di otto minuti tutte le storie di solitudine e inquietudine che Buchanan ha raccontato negli altri tre dischi: strade deserte, paesaggi osservati dai finestrini di un treno nel cuore della notte, riflessi tremolanti delle luci al neon sull’asfalto umido di pioggia, vita che non va da nessuna parte, albe livide di giorni all’apparenza tutti uguali.

Ma la vera e propria epitome -non la si può definire altrimenti- è costituita dalla traccia che dà il titolo al disco: tono crepuscolare, mood da “malinconia canina” (per riprendere una simpatica espressione coniata da Ennio Flaiano), cantato sofferto di Buchanan che insegue il crescendo ondeggiante della musica, base elettronica e arrangiamento per archi, testo struggente su una certa vischiosa quotidianità senza scampo e le opportunità sprecate di una vita, potenza evocativa fortissima. C’è davvero tutto, e nei battiti conclusivi della drum machine si ha come l’impressione di avvertire concretamente il suono del fiume della malinconia, giunto alla foce, che si spegne nel grande respiro del mare, nel silenzio della fine. Come un cuore che si ferma.

Il silenzio e la fine tornano nell’appendice alla storia dei Blue Nile. Mid Air, il disco solista di Paul Buchanan, arriva più o meno inaspettato otto anni dopo lo scioglimento del gruppo ed è composto da tredici brani cantati e uno strumentale, per una durata che supera di poco la mezzora. Le ormai classiche linee melodiche e le successioni di accordi, in particolare quelle che hanno contraddistinto Hats e High, sono ben riconoscibili, ma risultano quasi spolpate, ridotte a una sorta di grado zero, perché sono appena tratteggiate da un pianoforte al quale risponde la sola voce di Buchanan, spesso stemperata in un bisbiglio che precede il semplice respiro e infine il silenzio. Il suo suono mid air, “a mezz’aria”, echeggia tra le pause armoniche e riporta alla memoria, come dicono i versi finali della title-track, la viva e dolorosa presenza di tutte le cose perdute, le neiges d’antan, le foglie trascinate dal vento, le ombre quasi conradiane delle persone scomparse.

Mid Air, coi suoi riferimenti colti a Debussy e Satie, è la logica conclusione di un percorso che Buchanan aveva indicato fin dai tempi di A Walk Across The Rooftops, quando aveva affermato sul filo del paradosso che i Blue Nile erano in definitiva una punk-band, che allo sberleffo e alla provocazione preferiva il linguaggio -meno appariscente ma più incisivo- della musica e della rarefazione emotiva. Il cui approdo, come nel caso dei già ricordati Talk Talk del compianto Mark Hollis, non è altro che il silenzio. Lo si è capito poco alla volta, brano dopo brano e disco dopo disco, mentre i Blue Nile si tenevano sempre più in disparte e la loro storia si trasformava e infine si cristallizzava in leggenda.

05:46

Mark Hollis

Attualità culturale 26.02.2019, 18:00

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