Società

Anche gli animali soffrono

Peter Singer elabora una moralità che tenga conto anche della sofferenza degli animali, per i quali propone un nucleo di diritti morali

  • 8 giugno, 07:53
PeterSingerSocialMedia
Di: Marco Pagani/red.
Io credo che il limite più importante sia la capacità di soffrire. Se un essere ha questa capacità, che sia un cane, un gatto, un essere umano o una mucca, allora la sofferenza non può essere ignorata.

Peter Singer è considerato il pioniere del movimento per i diritti degli animali, di cui ancora oggi è un militante influente.

Nel suo testo più famoso “Liberazione animale” (1975) Singer confuta le tesi dello specismo, teoria secondo cui gli esseri umani sono considerati superiori rispetto alle altre specie animali. Di conseguenza, nel suo libro “Ripensare la vita” (1994), Singer propone di cambiare il quinto comandamento in: “non discriminare in base alla specie”.

La filosofia morale di Singer è consequenzialista, concepita come una forma di utilitarismo, secondo la quale l’azione moralmente giusta è quella che soddisfa al massimo le preferenze della maggior parte degli esseri senzienti. E in questa categoria Singer include anche gli animali che, come gli esseri umani, hanno la capacità di soffrire.

Marco Pagani ha intervistato Peter Singer per Alphaville (Rete Due, 04.06.2024). Eccone alcuni stralci e l’audio integrale:

Lei è considerato uno dei fondatori del pensiero filosofico intorno alla questione animale, all’antispecismo e alla liberazione animale. Ci vuole spiegare come l’essere senzienti e in grado di soffrire implichi per gli animali l’esistenza di un nucleo di diritti morali? 

Credo che se ci ponessimo la domanda: c’è una ragione per cui non dovremmo tenere conto di un essere che soffre? Allora penso che la risposta più ovvia sarebbe: la sofferenza è una cosa brutta. È una cosa brutta quando la provo, è una cosa brutta quando la sperimentano coloro che amo e a cui voglio bene. Ma è anche una brutta cosa se dei perfetti sconosciuti soffrono inutilmente.

E a questo punto non è nemmeno essenziale che siano membri della mia specie [...] Io credo che il limite più importante sia la capacità di soffrire. Se un essere ha questa capacità, che sia un cane, un gatto, un essere umano o una mucca, allora la sofferenza non può essere ignorata. Non importa quali sono le differenze che ci separano, il colore della pelle, la specie. Viceversa se non c’è la capacità di soffrire, se non c’è coscienza, se non c’è esperienza, se non c’è nulla che significhi essere quell’altro essere, allora non c’è nulla da prendere in considerazione. Ma laddove c’è capacità di soffrire, non possiamo fare finta di niente.

La capacità umana di riconoscere la sofferenza in altre specie dovrebbe implicare una sorta di dovere morale a non infliggerla? In altre parole, secondo lei dovremmo proibire l’infliggere sofferenza ad altri esseri capaci di provarla?

Beh, sì. In molti modi in effetti lo facciamo già. Vietiamo la sofferenza inflitta ad altre specie. Ma solo in un numero limitato di casi, e siamo particolarmente preoccupati solo per un numero limitato di animali. Quando, per esempio, qualcuno per strada prende a calci un cane e lo butta a terra, e lo prende selvaggiamente a calci, se lo vediamo chiamiamo la polizia. Qualcuno sta commettendo un crimine e la polizia deve fare qualcosa. Ma se gli animali vengono maltrattati nell’ambito dell’allevamento a scopo alimentare, come spesso accade nell’agroindustria, chiudiamo tutti e due gli occhi [...]

Il suo libro Liberazione Animale, usciva nel 1975. Dando voce e struttura a un dibattito intorno al superamento dello specismo, che in questi 50 anni si è evoluto ed è cresciuto. Dove siamo oggi?

Credo che in questi cinquant’anni abbiamo fatto dei progressi, ma sono stati lenti. E la dimensione complessiva del problema ha continuato a crescere perché il numero di animali è aumentato. L’allevamento a scopo alimentare e il consumo hanno continuato a crescere in tutto il mondo. In Unione Europea, come anche in Svizzera ci sono stati dei progressi a livello legislativo. Ad esempio sono state vietate le gabbie standard in filo metallico che ho descritto nella prima edizione di Animal migration, in cui quattro o cinque galline erano ammassate in uno spazio talmente angusto, che non potevano nemmeno aprire le ali. Questo non esiste più in Svizzera o nell’Unione Europea; anche la detenzione di vitelli e maiali in gabbie troppo strette per permettere loro di girarsi, è oggi generalmente vietata in tutta Europa.

Ci sono stati quindi alcuni progressi significativi, ma il problema è che ci sono ancora centinaia di milioni di animali allevati e uccisi ogni anno in condizioni terribili. Ad esempio, nell’allevamento di polli da carne. Capannoni ermeticamente chiusi, da 20mila polli ciascuno, dove gli animali sono talmente schiacciati uno sull’altro che non possono neanche muoversi. Polli selezionati geneticamente per crescere a una rapidità innaturale. Crescono così velocemente che le loro zampe non sono in grado di reggere il loro peso. Hanno ustioni sul corpo, infezioni, soffrono terribilmente soprattutto nelle ultime due settimane di vita. Hanno troppo peso sulle loro gambe e non riescono neanche a stare in piedi.

Stiamo creando mostruosità, al solo scopo di produrre un prodotto che sia il più economico possibile.

Peter Singer, un’ultima domanda: in che modo la capacità di riconoscere la sofferenza nell’altro, sia che l’altro sia umano, sia che non lo sia, dovrebbe costituire un faro etico sul quale orientare la nostra evoluzione morale?

Se guardiamo al percorso dell’evoluzione morale umana nel corso di migliaia di anni, possiamo dire che abbiamo costantemente allargato la nostra cerchia del “prendersi cura”. Siamo partiti da una morale tribale molto ristretta, in cui ci prendevamo cura solo dei membri del nostro gruppo, che poteva essere composto da qualche decina o al massimo qualche centinaio di persone. Inizialmente avevamo degli obblighi e un legame empatico solo con loro.

Gradualmente abbiamo allargato questo confine, includendo tutti i membri di un gruppo più ampio, diciamo una nazione, per poi passare a tutti i membri della nostra razza o - in alcuni casi - della nostra religione; e nel ventesimo secolo, con la fine della seconda guerra mondiale e il riconoscimento delle atrocità che l’essere umano era stato capace di compiere, abbiamo creato la dichiarazione universale dei diritti umani, che - almeno dal punto di vista retorico - estende il confine a tutti i membri della nostra specie.

Ma perché fermarci qui? Se ci sono altri esseri che possono soffrire e provare dolore oltre i confini della nostra specie, dobbiamo includerli; e non dobbiamo fermarci finché questa nostra “cerchia del prendersi cura” non si espanderà fino a includere ogni essere in grado di provare piacere o dolore.

Discorso sull’Etica

Alphaville 04.06.2024, 11:05

  • Imago Images

Ti potrebbe interessare