L’epoca attuale, segnata da conflitti, guerre, massacri, polarizzazioni e ingiustizie, sembra sempre più incapace di trovare soluzioni condivise. Nemmeno la diplomazia, una pratica millenaria, riesce a promuovere efficacemente il dialogo e la pace. E le voci tra le più autorevoli del pianeta, come quelle del segretario delle Nazioni Unite Gutierrez o di papa Francesco, che promuovono uno stop alla barbarie e un invito al dialogo, restano del tutto inascoltate.
Di fronte a questa situazione di stallo e alla crescente indifferenza collettiva, emerge la necessità di coltivare l’empatia come risorsa per ricostruire legami e affrontare le divisioni sociali.
L’empatia, la capacità di comprendere e condividere le emozioni altrui, è infatti un pilastro delle relazioni umane. Ma è molto più di un tratto personale: è una competenza trasformativa che può essere sviluppata. E questo la rende una potenziale chiave per costruire società più coese e inclusive.
Ne parla la giornalista scientifica e scrittrice Elisabeth Svoboda in un lungo e approfondito articolo pubblicato in italiano su Le Scienze di dicembre, sotto il titolo Coltivare l’empatia (Being Empathetic Is Easier when Everyone’s Doing It, in Scientific American, settembre 2024).
Questa capacità di percepire le emozioni degli altri (empatia affettiva) e di comprenderne il punto di vista senza necessariamente condividerne i sentimenti (empatia cognitiva), richiede uno sforzo mentale significativo e un contesto favorevole per essere sviluppata. La ricerca suggerisce che fattori sociali e biologici possono ostacolare l’empatia, ma l’educazione e l’esempio giocano un ruolo cruciale nel suo potenziamento.
Non è un caso forse che molti degli studi sull’empatia e su come coltivarla siano condotti negli Stati Uniti, e cioè in una società caratterizzata da una polarizzazione profonda e a tratti violenta, e dove indagini come quella della psicologa sociale Sarah Konrath dell’Indiana University (dove dirige Interdisciplinary Program Research on Empathy and Altruism) mostrano un calo dell’empatia negli ultimi decenni.
Tuttavia, non mancano i segnali positivi. In particolare tra i giovani, che sembrano più aperti a comprendere le prospettive altrui. Anche se le ricerche evidenziano fattori sociali e biologici che continuano a scoraggiare la capacità di entrare in sintonia con gli altri. Ecco perché stanno nascendo nuove figure professionali, come l’educatore all’empatia, così come progetti - programmi per gli alunni delle elementari, seminari di formazione per dipendenti delle aziende e così via - per promuovere questa attitudine all’immedesimazione come valore collettivo e favorire il dialogo e la comprensione reciproca.
Parola tra le righe: empatia
Tra le righe 06.11.2024, 14:30
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Tra i tanti progetti, il Caffè dell’empatia: un forum virtuale di discussione promosso da Edwin Rutsch, fondatore già nel 2010 del Centre for building a Culture of Empathy, che offre uno spazio strutturato in cui i partecipanti si ascoltano reciprocamente e “riflettono”. Questo metodo, che prevede uno scambio disciplinato e rispettoso, ha dimostrato di poter abbattere pregiudizi e promuovere una comprensione più profonda tra le parti. Un esempio è lo scambio organizzato per suscitare un dialogo tra la polizia e cittadini, in particolare persone rimaste scottate da un incontro con le forze dell’ordine. Lo descrive Svoboda nel suo articolo: «Si parla a turno ognuno per 4 minuti, spiega il moderatore al gruppo che poi si dividerà in sottogruppi in stanze separate. In ciascuna stanza, dopo che uno dei partecipanti ha potuto dire ciò che pensa, un altro, scelto per fare da ‘riflettore’, dovrà riassumere il meglio possibile le opinioni e le preoccupazioni dell’oratore, che sia d’accordo o meno. Poi il riflettore diventa l’oratore e sceglie il prossimo riflettore. E si va avanti così».
L’essere intensamente ascoltati, e l’ascoltare intensamente in cambio, sembra influenzare il tipo di argomenti che ciascuno degli oratori decide di sollevare, e porta a lasciar cadere i propri pregiudizi e a capirsi più profondamente.
«Le norme vigenti in un’epoca di polarizzazione, tuttavia, spiega ancora Svoboda, precludono scambi così ricchi di sfumature. Stroncare le opinioni opposte viene lodato nei gruppi di attivisti e approvato sui social media, mentre impegnarsi in una discussione civile con l’altra parte può sembrare pericolosamente prossimo all’accettare convinzioni dannose».
Inoltre, comprendere appieno l’esperienza altrui è un compito cognitivo molto impegnativo, come dimostrano le neuroscienze, che cominciano a delineare un quadro più chiaro delle origini neurali dell’empatia: molte le aree del cervello che si attivano, come la corteccia prefrontale dorsomediale, che contribuisce a valutare gli stati emotivi altrui, e l’insula anteriore coinvolta nell’elaborazione del dolore; oltre a singoli neuroni della corteccia prefrontale dorso mediale che codificano informazioni sui pensieri degli altri.
Non sorprende quindi che recenti studi, come gli esperimenti condotti da C. Daryl Cameron, psicologo della Pennsylvania States University, mostrino che la gente tende a evitare lo sforzo mentale necessario per capire ciò che pensano e sentono gli altri, soprattutto se l’altro è uno sconosciuto. L’empatia infatti, da tempo un fattore adattativo nell’assicurare la coesione sociale, è il frutto di un’operazione mentale complessa e difficoltosa. Ecco perché, nonostante i benefici, può risultare difficile da praticare. Quando ci si sente sopraffatti dai costi e dall’impegno previsti, si tende a negarsi al contatto, più che a cercare di comprendere il punto di partenza dell’altro. Molti preferiscono evitare lo sforzo, rifugiandosi in ambienti omogenei, sia online che offline, che alimentano polarizzazioni e divisioni. Inoltre, meccanismi sociali come il bias di conferma e la pressione dei gruppi rendono difficile mantenere un dialogo empatico con chi ha opinioni divergenti.
Ma i forum di Rutsch e ricerche come quelle di Joshua Kalla della Yale University e David Brookman dell’università della California a Berkeley mostrano gli indubbi benefici di un coinvolgimento sociale più empatico e riflessivo «è l’essere ascoltati, non condannati, che induce la gente a uscire dei propri schemi ristretti. Quando le persone si sentono ascoltate e comprese tendono a sentirsi più al sicuro; le reazioni di attacco o fuga iscritte nel sistema nervoso passano allora in secondo piano, il che consente di elaborare meglio ciò che stanno dicendo gli altri».
Ma la cosa più importante che emerge dagli studi è che «nelle comunità che prendono a modello questa pratica, le persone cominciano a sentirsi obbligate sempre di più a capirsi le une con le altre; che siano in gruppi di tre o quattro come nelle sedute on-line di Rutsch, in intere scuole o sedi di lavoro».
Perché l’empatia non è solo una competenza individuale, ma un processo socialmente motivato, che dipende non solo da quanto se ne sa, ma anche da quanto ci si sente spinti a mostrarla, come ha dimostrato la psicologa sociale Erika Weisz con i suoi studi: «Le persone desiderano accrescere la propria empatia se si dice loro in sostanza che ciò aiuterà nella vita sociale» dice Weisz. «È una leva perfettamente ragionevole». A differenza dall’insegnamento di abilità informatiche, che insegna specifici metodi per entrare in relazione con gli altri, l’approccio di Weisz comporta la costruzione di comunità che apprezzano e ricompensano i comportamenti empatici. Sfrutta insomma una sorta di costruttiva pressione dei pari.
Anche secondo Jamil Zaki, psicologo sociale della Stanford University, le persone sono più propense a praticare l’empatia quando questa è considerata una norma consolidata all’interno della comunità. In tal modo, l’empatia diventa contagiosa: vedere esempi di comportamenti empatici stimola a replicarli, influenzando positivamente anche il funzionamento del cervello.
Anche nelle scuole iniziative come quelle promosse da Erika Weisz hanno mostrato risultati promettenti. Stabilire l’empatia come norma sociale nelle comunità scolastiche ha incentivato gli studenti a praticarla quotidianamente, creando un ambiente più inclusivo e collaborativo.
Insomma, l’empatia non è solo una dote personale o un atto individuale, ma una forza trasformativa che può ridurre le disuguaglianze e stimolare un cambiamento positivo, soprattutto se si eleva a norma sociale. E investire nel suo sviluppo a livello individuale, educativo e istituzionale potrebbe essere fondamentale per costruire una società più inclusiva e umana.
Comprendere il prossimo non è solo un gesto di generosità, ma un impegno verso un futuro più inclusivo e sostenibile.