Società

Fuggire dall’oppressione per amare liberamente

Testimonianze di migranti della comunità LGBTQ+ in fuga dalle politiche repressive turche, alla ricerca di un nuovo inizio in Svizzera

  • 16 aprile, 14:00
  • 17 aprile, 17:50
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Di: Red./Alberto Tetta 

La Svizzera è diventata negli ultimi anni una delle mete più ambite per le persone LGBTQ+ in fuga dalle politiche omofobe e repressive del presidente turco Erdoğan.
 
Rifugiate e rifugiati inseguono il loro sogno di libertà seguendo la rotta balcanica, nascoste nel retro di un camion o marciando per giorni tra alte barriere di filo spinato, sentieri impervi nella foresta, ronde della polizia di frontiera, bande di trafficanti, abusi e respingimenti violenti.  

27:40

Kaçak/Clandestinə

Laser 11.04.2025, 09:00

  • Imago Images
  • Alberto Tetta

Marina ha attraversato i Balcani nel baule di una macchina, percorrendo centinaia di chilometri con un solo obiettivo: scappare dalla Turchia, dove per lei, persona trans-non binaria, era diventato ormai impossibile vivere. Il desiderio di un nuovo inizio era tanto intenso quanto l’ansia che pervadeva il suo corpo, che aumentava esponenzialmente ogni qualvolta sentiva che la meta era più vicina. Il culmine lo percepì quando, sentito l’annuncio della fermata di Chiasso, vide gli agenti di polizia doganali effettuare i soliti controlli di routine sul treno: «Ho realizzato che tutta la mia vita dipendeva da quei poliziotti di frontiera», confessa Marina. Chi darà il sospetto di essere un migrante verrà controllato, chi sarà colto senza documenti si vedrà respinto in Italia. Un momento decisivo: se sarà Marina ad essere scelta, il suo sogno di rinascita andrà in frantumi e tutte le fatiche per arrivare fino a quel punto cadranno nel nulla. Minuti che parevano interminabili, secondi che andavano a rilento, fino a quando gli agenti scesero dal treno: il sapore della libertà, dimenticato da anni o forse mai veramente conosciuto, pervade lo spirito di Marina.

Istanbul è la mia base da molto tempo. Lì ho conosciuto decine di persone LGBTQ+, turche e curde, che in un modo o nell’altro in questi anni sono scappate all’estero per evitare l’arresto, la gogna mediatica o anche solamente per sentirsi finalmente libere di camminare per strada senza essere insultate e aggredite. C’è chi è andato in Germania, in Francia, in Olanda, ma negli ultimi anni il flusso si è concentrato in un paese in particolare: la Svizzera. 

Marina, migrante LGBTQ+ dalla Turchia

Marina ha ripercorso il suo viaggio confidandosi con Alberto Tetta, ai microfoni della trasmissione Laser: il suo viaggio ha avuto inizio all’aeroporto di Istanbul, dove Marina prese un aereo in direzione Sarajevo. Una volta atterrata, si trovò in auto con altre persone che, come lei, avevano intrapreso il loro viaggio alla ricerca della libertà. Dopo aver attraversato la Bosnia Erzegovina, il gruppo ha continuato l’itinerario a piedi, oltrepassando il confine croato. Tra fughe e nascondigli, finalmente giunse un’auto in cui vi era già dentro una famiglia. Marina fu dunque costretta a proseguire il viaggio nel baule, convinta che sarebbero bastati pochi minuti fino alla prossima tappa. Si sbagliava: rimase nel bagagliaio ore e ore, nel buio e pervasa da attacchi di asma. Non sapeva cosa stesse accadendo là fuori. Passarono almeno cinque ore e finalmente Marina poté uscire dal bagagliaio. La famiglia che l’aveva accompagnata fino a quel punto chiamò un taxi che li condusse a Zagabria. Lì, c’erano due auto ad attenderli, che portarono il gruppo oltre il confine della Slovenia. Il viaggio di Marina continuò in solitaria: prese un treno per Trieste, completamente inconsapevole di come continuare il resto della migrazione verso la Svizzera.

La mia vita era terribile. Per sopravvivere ero costretta a prostituirmi. Era molto difficile mantenermi. Ricevevo minacce costanti da parte della mia famiglia. Minacce di morte. Non ero davvero libera di esistere, o perlomeno nel modo in cui volevo io.

Marina, migrante LGBTQ+ dalla Turchia

«I passeur mentono continuamente e ti danno indicazioni false per depistare. L’unico scopo che hanno in realtà è prendersi tutti i tuoi soldi e mollarti lì. Per i trafficanti la tua vita non ha la minima importanza», confessa Aku, altra migrante LGBTQ+ in fuga dalla Turchia. Non ci si può fidare di nessuno, nemmeno durante un viaggio in cui l’unico appiglio e l’unica speranza è trovare un minimo di umanità nelle persone che si incontrano. Un viaggio all’insegna dell’attesa disperata, cieca, alla ricerca di un segno che potesse far intuire una progressione, che arrivava sempre troppo tardi: «Abbiamo aspettato tre giorni nella foresta, ma i passeur non sono mai arrivati. Allora siamo riusciti a metterci in contatto con altri trafficanti che ci hanno portato in macchina vicino alla frontiera con l’Austria, attraversando tutta l’Ungheria. Abbiamo proseguito a piedi per circa tre ore fino al confine. L’abbiamo superato e ancora camminando siamo arrivati nei pressi di un paese vicino a Vienna». Aku è stanca, provata da un viaggio che sembrava non dovesse finire mai. Ma ce l’ha fatta: è vicino a Vienna e dei conoscenti vengono a prenderla per portarla in Svizzera

Davanti al municipio di Basilea attiviste e attivisti ricordano le persone uccise dalla violenza transfobica nel mondo, illuminate dalla luce delle candele. Le foto delle vittime coprono il selciato. Alcuni di loro per me non sono volti anonimi, ma persone che conoscevo. Vicini e vicine di casa, attivisti e attiviste conosciute a pride e assemblee. Mi si stringe il cuore a pensare che forse, se non fossero partite, tra quelle foto ci sarebbero potuti finire anche i volti delle persone che sto incontrando in questo viaggio.

Aku, migrante LGBTQ+ dalla Turchia

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