Sin dalle prime pagine del suo libro “Cose che non si raccontano”, è il sangue a dominare. Con la doppiezza che porta con sé: simbolo di un legame che si vorrebbe costruire, ma anche di un legame reciso anzitempo.
“Siamo due pazzi [lei e il suo compagno Andrea, n.d.r.], e dopo un po’ chiudo gli occhi, e lui chiude gli occhi, e spegne la luce. I mostri nella mia testa sono sempre arrivati. Ma adesso non sono nemmeno più mostri. Sono organismi solidi fatti di sangue gelatinoso, cubetti di sangue che sento venir fuori da me. E io non voglio che sia sangue, quello che viene fuori da me. Non può essere vero. Non è vero” (cit. da “Cose che non si raccontano”)
Antonella Lattanzi ha vissuto su questo crinale per buona parte della sua vita. A vent’anni l’aborto fu una scelta, due volte, per inseguire la carriera di scrittrice, a quaranta è stato una necessità, in un percorso di procreazione assistita pieno di ostacoli e complicazioni.
“Siamo ancora in una società in cui le donne parlano dell’aborto, ma non dei propri aborti”.
Ne parlano attraverso un linguaggio manomesso, distante, che potrebbe sembrare l’emanazione del freddo lessico medico: quello che chiama un feticidio “riduzione” o il raschiamento “revisione della cavità uterina”, “come se tu fossi un’automobile” ci dirà Antonella Lattanzi.
Così il suo libro, che voleva essere un modo per prendersi la responsabilità di ciò che le è successo, si è caricato di un’inaspettata dimensione universale: “Ci sono donne, ma anche uomini, che mi scrivono sui social o che vengono in lacrime alle presentazioni, ringraziandomi per aver raccontato attraverso le mie parole anche la loro esperienza, magari capitata quarant’anni prima”.
Una dimensione universale che è anche intrinsecamente politica: “lo scandalo principale è che pensiamo di essere in una società in cui la situazione della donna si è evoluta, ma non è così. A Roma imploravo un grande medico di conciliare le nostre visite con i miei viaggi di lavoro. Mi ha risposto: ‘Lattanzi tu adesso devi decidere: ti vuoi impegnare per essere madre o vuoi pensare al tuo lavoro?’. Mi chiedo se una cosa del genere sia mai stata chiesta a un uomo”.