Il corpo è politico, è desiderante, è anarchico, è scandalizzante, fa paura: come scriveva Michel Foucault (1926-1984): «esso costruisce resistenze». Per questo motivo, nei secoli, i poteri hanno definito etiche, regimi disciplinari e politiche di coercizioni che hanno lavorato sul corpo per controllarlo e correggerlo al fine di massimizzarne l’utilità negli ingranaggi della società e del processo produttivo. Per fortuna, non è più l’epoca del Malleus maleficarum, il testo dell’Inquisizione che nel XV secolo “indagava” il corpo per riconoscere i segni di satanismo. Oggi, come ieri però, le istituzioni totali, educative e riabilitative, a ogni latitudine, continuano ad avere la funzione di ingabbiare il corpo in una prigione culturale, religiosa e normata che garantisca il rispetto di quell’ordine simbolico dominante che il corpo stesso è chiamato a rispettare.
Purtroppo era un’ingenua illusione quella che nel 1971 fece dire a Pier Paolo Pasolini (1922-1975): «Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere». Non era vero, non lo era mai stato: per ragionare solo del XX secolo, basti pensare ai milioni di morti dei conflitti che lo hanno attraversato, milioni di corpi su cui l’autorità aveva avuto, oltre al controllo, potere di vita o di morte.
La violenza sistemica sui corpi, però, non è solo fisica, è anche psicologica. Nel presente, ad esempio, una forma di violenza subliminale è rappresentata da quella concezione mirata a far sì che il corpo non solo non metta in discussione la propria identità di genere, ma anche che sia conforme al mainstream delle immagini seduttive dei media e dei social “costruite” dal sistema capitalistico e che producono «corpi ossessionati da sé stessi come oggetti di consumo da proporre sul mercato», come ha scritto la critica d’arte Angela Vettese nel suo libro Il corpo liberato (Laterza 2024).
ORLAN durante un intervento di chirurgia estetica trasformato in performance artistica.
Il corpo però è sovversivo, lo è sempre stato, e quando “incontra” identità intellettuali e politiche che rifiutano i canoni inscritti nell’ordine pubblico, storico e culturale, è capace di ribaltare l’assetto costituito della cosiddetta normalità.
Mireille Suzanne Francette Porte (1947) conosciuta con il nome d’arte ORLAN (per suo desiderio, da trascrivere rigorosamente in lettere maiuscole), è considerata un’icona dell’arte femminista. Contro gli ideali di bellezza standardizzati e imposti dal mercato, l’artista francese negli anni Novanta iniziò a sottoporsi a interventi di chirurgia estetica trasformandoli in performance fotografate e videoregistrate. Capostipite di quella che ha chiamato Art Charnel, dopo avere lavorato tradizionalmente con pittura e scultura, ORLAN arrivò a considerare il proprio corpo come «materiale tra i materiali». Da qui il desiderio di “scolpirsi”, anche con protesi che cancellavano ogni stereotipo di bellezza e liberavano il suo corpo da ogni obbligo di conformismo.
Clementine Delait
Un desiderio di “corpo ribelle” che arrivava da lontano: lo ricorda molto bene il film di Stéphanie Di Giusto Rosalie (2023) ispirato alla biografia di Clementine Delait (1865-1939), donna irsuta che nella seconda metà dell’800 rivendicò con orgoglio la propria diversità e il desiderio di non omologarsi alle immagini convenzionali della femminilità. Anni dopo, lo stesso concetto lo espressero Lucy Renée Mathilde Schwob (1894-1954) nota con il nome Claude Cahun e Marcel Duchamp (1887-1968). La prima, fotografa e esponente del Surrealismo, volle sempre rappresentarsi senza identità definite. Al fine di riconquistare la libertà negata dal Ruolo e dalla Norma, si propose così alla macchina fotografica con identità mutevoli, maschere che moltiplicavano l’Io, assessualizzandolo e infine annullandolo.
Marcel Duchamp nelle vesti di Rrose Selavy
Altrettanto radicale fu Marcel Duchamp quando, nel 1921, si fece fotografare da Man Ray (1890-1976) nei panni di Rrose Sélavy, una donna elegante con cui, creando un’immagine altra da sé anche sul piano artistico, volle sottolineare la scomparsa della certezze precostituite.
C’è chi, come gesto di estrema radicalità, il proprio corpo lo ha invece volutamente ferito, martirizzato, in certi casi mettendo addirittura a rischio la propria sopravvivenza. Gina Pane (1939-1990) performance artist, considerata una delle antesignane della Body Art, ad esempio, negli anni Settanta si feriva a sangue per denunciare quanto il corpo della donna fosse violato nella società patriarcale.
Marina Abramovich durante la performance Rhythm 0
Autolesioniste e spesso a rischio della propria incolumità molte performance messe in atto, soprattutto tra gli anni ’80 e ’90, dall’artista concettuale Marina Abramovich (1946). Tra le innumerevoli azioni (tutte significative) ricordiamo Rhythm 0 del 1974: per sei ore l’artista rimase immobile e priva di volontà davanti a un pubblico autorizzato non solo a fare su di lei ciò che voleva, ma pure a usare una serie di strumenti di piacere o di dolore, tra cui coltelli, forbici, fruste, una pistola carica e una lametta, (con questa, alcuni spettatori incisero la sua pelle per succhiarne il sangue). Con la performance Abramovich volle dimostrare che l’essere umano è per natura violento: ci riuscì.
In forma sicuramente meno violenta, ma non per questo meno provocatoria, la volontà di autodeterminazione dei corpi si esprime oggi anche per mezzo di piercing particolarmente invasivi che, caricati di una valenza di sovversione, sono entrati a far parte del “patrimonio” di molte esperienze controculturali, in primo luogo quella punk.
E domani? Nel mondo ipertecnologizzato che prevede, come sta studiando Lucy McRae (1979), definita science fiction artist e body architect, pelle liquida da indossare in caso di radiazioni e un organismo trasformato in piattaforma interattiva, ci saranno ancora corpi sovversivi? La parola alla letteratura distopica e fantascientifica...
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