Da alcuni anni l’espressione “lingua materna” stride nel mio cervello. Ho avuto una conversazione abbastanza surreale con una collega neomamma che mi diceva che voleva parlare in inglese a suo figlio perché così la sua “lingua materna” sarebbe stata l’inglese, dato che l’avrebbe acquisita da lei. Le avevo chiesto se l’inglese fosse la sua lingua d’origine, ma mi aveva risposto di no: lo aveva studiato a scuola, e lo parlava discretamente, ma non perfettamente.
Da questa conversazione sono uscita stranita: in che senso la “lingua materna” è quella che la madre usa per comunicare con la propria figlia o il proprio figlio? E se una persona è orfana? E che ruolo ha l’eventuale padre nell’acquisizione di una lingua da parte di un infante? E se la madre decide di non parlare nella propria lingua nativa alla propria prole? È il caso della mia conoscente, ma anche, per esempio, di tutte le persone emigrate che scelgono di parlare in casa la lingua del loro paese di destinazione, per garantire alla propria figlia o al proprio figlio un futuro migliore, convinte di avvantaggiarlo dal punto di vista linguistico.
In realtà, sui vantaggi di crescere multilingui ci sono numerosi studi. C’è anche una raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea su un approccio globale all’insegnamento e all’apprendimento delle lingue. In Svizzera il multilinguismo è molto diffuso, ma lo è anche in Italia, soprattutto se consideriamo i cosiddetti “dialetti” delle lingue vere e proprie, come sono in effetti considerati dal punto di vista della linguistica (Emanuele Miola, Che differenza c’è tra lingua e dialetto?, in «Linguisticamente», 2020).
Tornando però alla conversazione con la mia conoscente: lì per lì, mi ha lasciato molti interrogativi. Anche a distanza di anni, e con ulteriori letture, non ho risposte certe.
Qualche tempo fa ho incrociato questo testo della docente e attivista Brigitte Vasallo: «Le lingue che porto con me alla base sono il catalano e il castigliano. La mia lingua relazionale è multipla e include l’arabo e l’inglese. Non so cosa significhi ‘lingua madre’. La mia madre naturale mi parlava in un gallego castiglianizzato, la mia madre scelta mi parla in un arabo marocchinizzato, io parlo a mio figlio in catalano barcellonese. La lingua materna è quella che mi è stata trasmessa o quella che trasmetto io? Non sento quella che chiamiamo ‘terra’ come sinonimo di patria, nessuna. La Spagna mi è estranea tanto quanto la Svezia o l’Austria, e la Catalogna è quel luogo che sì ma no, di cui ho tanti ricordi di appartenenza quanto di esclusione. Ciò che sento come patria, o forse come matria, sono i legami, le persone, alcuni paesaggi piccoli e concreti, che sono quartieri e poco altro, e che sono ovunque: luoghi reali in cui sono stata e luoghi mitici che mi hanno formata e che ancora non ho visitato» (Per una rivoluzione degli affetti, effequ, 2022).
Vasallo collega al concetto di “lingua madre” (che ammette di non avere) un altro concetto che mi sta sempre più stretto (e sta stretto anche a lei): quello di “patria”, intesa come stato-nazione, patriarcale, padronale, specchio di una società guerrafondaia e militare. Usa la parola “matria”, un neologismo. Mi sono ricordata di un libretto acquistato anni fa proprio con questo titolo, Matria, di Laura Marchetti, docente e attivista (Marotta e Cafiero, 2021). In un suo saggio precedente, Marchetti spiega la sua scelta di usare il neologismo “matria” al posto di “patria”: «Impossibile tradurre il concetto di “terra natale” così come la si intendeva fra i popoli che praticavano “il principio femminile e materno” con il termine di origine latina “patria” che intende la terra dei padri e dei patrimoni che si tramandano di padre in figlio in eredità come nel diritto romano. Preferiamo perciò introdurre il neologismo “matria” per indicare appunto la terra della nascita intesa come casa materna e radice. In questo riproduciamo la distinzione della lingua tedesca fra Vaterland e Heimat» (Ospitalità narrativa e senso della ‘Matria’, in Gli alfabeti dell’intercultura, a cura di Massimiliano Fiorucci, Franca Pinto Minerva, Agostino Portera, Edizioni ETS, 2017, pp. 477-494).
Grazie a Paola Chiara Masuzzo ho scoperto l’autrice femminista indigena Lee Maracle, che ha parlato, già nel 1988, di rematriation (si potrebbe tradurre come “rimatrio”). Mette questo concetto in contrapposizione con repatriation (“rimpatrio”), ovvero «il ritorno in patria o in generale la restituzione di beni a un paese d’origine, a una nazione. La radice latina di questa parola è patr-, e si riferisce a un sistema governativo e sociale progettato intorno a una linea di discendenza patrilineare (dove contano soprattutto gli uomini, per farla breve)». Il processo di rematriation «pone piuttosto l’accento su un ritorno alla Madre Terra (non necessariamente a un paese, un luogo) riconoscendo il legame sacro tra le comunità indigene e i territori da cui sono state storicamente espropriate a causa della colonizzazione e delle politiche oppressive. La rematriation è un vero e proprio atto di resistenza, riconciliazione e rigenerazione culturale, e pone grande attenzione sul ruolo centrale delle donne nelle culture indigene» (Tre parole, in «Fate ə monellə», 2025).
Quindi la lingua che parliamo, tradizionalmente, è uno spazio metaforico che ha a che fare con il “femminile” e la “maternità”, non solo in italiano (mother tongue, langue maternelle, Muttersprache, lengua materna). La terra che abitiamo, invece, in italiano è uno spazio associato alla “paternità” e alla “virilità”. Questo non accade in tutte le lingue: in inglese abbiamo, accanto a fatherland, il più usato homeland, che pone l’accento sul concetto di casa. È simile al tedesco, dove la parola Heimat rappresenta il legame tra la persona e il luogo come cultura e paesaggio, mentre Vaterland sta per “terra dei padri”.
La mia scomodità nell’usare non solo la parola “patria”, ma anche l’espressione “lingua materna”, è dovuta alla mia posizione sempre più critica nei confronti del binarismo di genere e degli stereotipi che alimenta. Mi sono avvicinata al pensiero della filosofa Judith Butler, che sostiene che il genere è una costruzione sociale, non un’essenza innata. Critica la concezione tradizionale del genere come qualcosa di biologicamente determinato o naturalmente binario (maschio/femmina). Per Butler, il genere non è qualcosa che “si è”, ma qualcosa che “si fa” (si “performa”) attraverso gesti, linguaggio, comportamenti e norme sociali.
In quest’ottica, quindi, l’idea di “maternità” intesa come dote esclusivamente “femminile” è problematica tanto quanto l’idea di una terra da sentire “padre”. Per questo motivo, da diverso tempo preferisco le espressioni “lingua prima” o “primaria” (di cui riconosco la problematicità, però: “prima” cronologicamente? “primaria” per importanza?), “lingua d’origine”, “lingua nativa”. Così come preferisco parlare di “genitorialità”, rispetto a “maternità” e “paternità”.
Se le parole influenzano il nostro modo di guardare e rappresentare il mondo, “lingua madre” e “patria” sono riproduzioni di schemi di pensiero binari e patriarcali. Forse non possiamo liberarci completamente dei significati sedimentati nelle parole, ma possiamo almeno renderci conto di come ci influenzano. Possiamo iniziare a interrogarli e, perché no, provare a decostruirli, a partire dal nostro modo di parlare. Guardare al linguaggio con occhi critici ci aiuta a comprendere meglio le strutture di potere che ci attraversano ogni giorno.
Giornata internazionale della lingua madre
Tra le righe 21.02.2025, 15:00
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